Ansia: quando si guarda la partita della vita dalla panchina…

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L’ ansia fa parte della vita, è quello stato d’animo che ci segnala qualcosa di cui temiamo le conseguenze, attiva adrenalina e ci porta ad attivare tutti i comportamenti più idonei a determinare i risultati più positivi possibili rispetto ai nostri bisogni. Questo quando l’ansia è funzionale.

Ogni essere umano ha sperimentato questa emozione nella propria vita. E’ quella che non ci fa chiudere occhio prima di un esame, o ci fa balbettare quando si è emozionati di fronte a qualcuno che ha un valore speciale, o che ci fa tremare le gambe in attesa di una risposta importante.

Ma quando invece diventa ansia disadattiva? Cioè quando non aiuta a migliorare la qualità della propria vita? In questo caso è un’emozione persistente che porta ad uno stato di irrequietezza e malcontento diffuso e indefinito indipendentemente da un evento specifico che può averla causata. Alla preoccupazione per questo motivo non meglio identificato si associano sensazioni di pessimismo, quindi irritabilità, insoddisfazione, insonnia, sensazione di stanchezza perché tutta la concentrazione mentale è rivolta a qualcosa di negativo che si teme ma che non si riesce a gestire.

Esternamente i segnali somatici che possono esprimere tale condizione interna sono costanti sia che si tratti di ansia funzionale che di ansia disfunzionale: pallore della pelle, aumento della sudorazione e del battito cardiaco, tremore, nausea, dilatazione pupillare. Ciò che fa la differenza è la capacità di percepire e riconoscere quando uno stimolo di pericolo è reale e quando invece è presunto e teorico. Nel primo caso l’ansia è proporzionale ad uno stimolo effettivo e tangibile che è bene allontanare, nel secondo caso si attivano emozioni stressanti non collegate a qualcosa di effettivamente minaccioso che generano soltanto lo sfuggire a situazioni invece potenzialmente positive e arricchenti. Si inizia allora a vivere male il lavoro, l’incontrare gli amici, il fare sport, il vivere una relazione sentimentale.

Tutto ha origine dall’aspettarsi qualcosa di brutto al di là di quello che si sta vivendo realmente. Ciò porta ad un sentimento di preoccupazione generalizzata verso uno stimolo non chiaramente identificabile che genera un diffuso e costante senso di vulnerabilità paralizzante.

A livello comportamentale questo genera comportamenti volontari e involontari diretti alla fuga o all’evitare la presunta fonte dell’ansia.
Si evita, cioè, non più un pericolo reale che si manifesta nel qui ed ora, ma anche quelle situazioni potenzialmente positive e gratificanti, poiché esse vengono percepite e interpretate piuttosto alla luce dei rischi presunti che delle caratteristiche effettive e sperimentabili. Ciò porta a vedere molte circostanze in modo negativo prima ancora di averle vissute concretamente, con la conseguenza di evitarle. In alternativa si ha la tendenza a generalizzare un’esperienza negativa che si è realmente verificata nel passato come regola di tutte quelle future, cosa che predispone ad un atteggiamento egualmente evitante, negativo e pessimistico.
In entrambi i casi i pensieri pregiudizievoli cioè le aspettative negative si sostituiscono alla realtà effettiva portando la persona a confondere l’una dimensione con l’altra senza sapere più distinguere dove arriva la realtà e iniziano le proprie paure.

Il meccanismo vizioso è: “temo di non essere capace di affrontare la situazione a vedo solo gli aspetti potenzialmente negativi o pericolosi o deludenti della situazione stessa (generalizzazione) a evito la situazione e mi sento sempre più piccolo e inefficace nell’affrontarla a ne ho sempre più paura a la evito e mi percepisco sempre più incapace a percepisco la situazione sempre più complessa e difficile da affrontare a non ce la farò mai”
Vivere le cose in modo spaventato e prevenuto impedisce alla persona di prendere fiducia in se stessa e nelle proprie reali risorse oltre che nel mondo esterno, amplificando la sensazione di inefficacia personale, di inadeguatezza e di inaccessibilità della vita, cosa che può alimentare anche pensieri depressivi e quindi altra chiusura in se stessi. il rischio è quello di vivere in una realtà parallela a quella reale in cui le situazioni che si immaginano vengono confuse con quelle effettive e ci si comporta dando per scontato che quanto si teme corrisponda alla realtà.

E’ allora importante capire da dove origina quell’aspettativa negativa, perché si guarda al mondo con gli occhi del pessimismo e della paura, qual è l’origine emotiva che ha deviato il modo di sentire e vivere le cose assimilandole al passato anche se inconsapevolmente. Facendo questo la persona ha l’opportunità di capire che il modo in cui legge la realtà e se stesso non corrisponde a ciò che effettivamente si sta verificando o alle capacità e qualità che egli possiede, ma a ruoli che ci si è attribuiti o a esperienze che sono state interiorizzate a tal punto da divenire il modello di ciò che è l’intera vita. Ciò è possibile esprimendo ciò che si prova, dando un nome a ciò che si teme, riconoscendo invece ciò che si è piuttosto che identificarsi con ciò che non si è in grado di fare in teoria.

Nessun essere umano ha a disposizione un ricettario pronto all’uso per la vita, le soluzioni cambiano da individuo ad individuo e nei vari momenti dell’esistenza della stessa persona, non esistono esperienze senza rischi, ma se ci si limita a guardare la partita dalla panchina senza mai entrare in campo per paura di farsi male, non si saprà mai neanche cosa si prova a mettere quella palla in rete. Sarebbe come decidere di vedere un solo colore dell’arcobaleno.

A cura della dott.ssa Francesca Romana D’Angelo