Caregiver e autismo

“Sono autistico e vivo in un piccolo mondo tutto mio, un mondino fiorito e colorato,la cui lingua è il linguaggio del cuore. La chiave della sua porta d’accesso è l’amore. Amami, solo così mi capirai e imparerai come farti capire da me.”
Jean-Paul Malfatti

Il Disturbo dello Spettro Autistico rappresenta un insieme eterogeneo di Condizioni del Neurosviluppo che si manifestano in età precoce (nei primi tre anni di vita), caratterizzate principalmente dalla difficoltà nella comunicazione e nell’interazione sociale nonchè dalla presenza di comportamenti e interessi ristretti e ripetitivi. Tali disturbi coinvolgono l’intero sviluppo mentale dell’individuo.

Il termine Autismo (dal greco “autòs”, che significa “se stesso”), venne utilizzato per la prima volta nel 1911 da Eugen Bleuler, per indicare un sintomo comportamentale della schizofrenia, indicante la perdita di realtà circostante e la conseguente concentrazione di tutta l’attività mentale sul mondo interiore (Venuti P., 2003).

I primi ad ipotizzare una vera e propria “sindrome autistica” furono Leo Kanner ed Hans Asperger. Entrambi gli autori, infatti, si sono ritrovati d’accordo nel ritenere alcune specifiche caratteristiche come le più importanti e tipiche dell’autismo classico. Tra queste emerge principalmente l’incapacità dei bambini di comunicare e di rapportarsi con le persone in modo normale. Questo aspetto, che prende il nome di “isolamento autistico”, non ha niente a che vedere con lo stare da solo fisicamente, bensì con l’essere solo mentalmente (Frith, 1998).

In particolare, Kanner (1943) descrisse con la formula “autismo precoce infantile” un quadro clinico molto caratteristico da lui osservato in 11 bambini con psicosi infantile, mettendo in evidenza un’incapacità nel rapportarsi all’ambiente nei modi tipici dell’età, una tendenza ad isolarsi, a non recepire i segnali provenienti dall’esterno (tanto che il motivo principale che portava i genitori a consulti specialistici era il sospetto di sordità) e gravi disturbi comunicativi (mutismo, ecolalia, difficoltà nell’uso del pronome “io”, ecc.).

Appare oggi noto che l’autismo sia presente in famiglie di ogni razza, religione ed estrazione sociale e che essi hanno problemi nell’interagire con le persone in generale e non esclusivamente con i genitori (Wing, 1980).

Un punto cruciale dell’autismo, sarebbe rappresentato dal mancato sviluppo della cosiddetta “Teoria della mente” (ToM). Con quest’ultima si intende la capacità di attribuire una determinata credenza ad un’altra persona e di possedere la rappresentazione mentale della credenza stessa. La teoria della mente è definita anche come metarappresentazione o rappresentazione di secondo livello (Anolli, 2002). Inoltre si tratta di un processo di mentalizzazione che rende il bambino un interlocutore più efficace ed esperto sul piano della comunicazione, in quanto padroneggia un’abilità nel proporre i propri pensieri, nel comprendere le intenzioni comunicative degli interlocutori e nel deviare gli scambi comunicativi secondo diversi registri e stili. La teoria della mente favorisce anche la negoziazione dei significati necessaria per paragonare le reciproche rappresentazioni mentali degli oggetti e degli eventi. L’acquisizione di una corretta teoria della mente rappresenta un fondamento centrale per lo sviluppo della comunicazione nel bambino (Anolli, 2002). Secondo alcuni ricercatori, gli autistici avrebbero, appunto un deficit specifico che riguarderebbe la comprensione della mente nelle altre persone (Baron Cohen, Leslie & Frith, 1985).

Un’altra particolarità di grande interesse è rappresentata dai cosiddetti “isolotti di capacità”, con i quali si intendono particolari forme di intelligenza presenti in circa il 10% dei soggetti autistici. Questi ultimi, per esempio, possono essere dotati di grandi abilità analitiche e matematiche oppure di una memoria meccanica per le poesie e i nomi (Frith, 1998).

Un’ulteriore caratteristica del disturbo è la ripetitività, il bambino infatti presenta una condotta monotona in particolare nei gesti e nei movimenti. Tale aspetto si può anche spiegare attraverso la rigidità, la fissità e la pedanteria che possono dare luogo alle “routine elaborate” utilizzate dal bambino nell’azione, nel linguaggio e nel pensiero. Purtroppo però il concetto di routine elaborata rientra tra quelli del disturbo meno analizzati fino ad oggi (Frith, 1998).

In passato, le teorie dominanti pensate all’origine dell’autismo sono state quelle psicoanalitiche, che guardavano alla malattia come risultato di un disturbo precoce della relazione materna e familiare (Gipps, 2004). Tra i principali rappresentanti di questa posizione ritroviamo appunto Bruno Bettelheim (1967), le cui teorie ebbero un grande sviluppo, influenzando profondamente le correnti di pensiero. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la teoria più importante e centrale in Italia, era quella che attribuiva una causa socio-relazionale alla malattia, in particolar modo era basata sulla “colpevolizzazione” della madre del soggetto autistico.

Tale teoria, definita ipotesi della cosiddetta “madre frigorifero”, si basava sulla rappresentazione di una madre fredda e distaccata dal punto di vista emotivo nei confronti del proprio bambino (Frith, 1998). Secondo questa concezione di pensiero, la figura materna contribuiva a dare origine ad un figlio autistico, dedicandogli ben poco del suo tempo e adempiendo ai suoi doveri in modo del tutto razionale. L’immagine di madre cattiva poteva così coincidere con quella di donna in carriera, caratterizzata da uno spiccato senso del lavoro e del successo. Questa rappresentazione, talvolta, viene ancora considerata a livello universale come collegata a possibili cause dell’autismo, concorrendo dunque a colpevolizzare inutilmente i genitori dei soggetti autistici (Frith, 1998).

Gli approcci moderni, sostengono invece che alla base ci sia una componente biologica costituzionale.

I vari risultati della ricerca condotta negli ultimi decenni (Peeters & Gillberg, 1999) hanno evidenziato che possono essere presenti differenti forme di disfunzione cerebrale che danno come risultato lo sviluppo di un Disturbo dello Spettro Autistico.

Molteplici sono le cause che possono determinare queste anomalie: in alcuni casi esse sono dovute a fattori genetici, danni cerebrali presenti durante la gravidanza, il parto o il periodo pre-natale e in alcuni casi sono causate da problemi specifici associati a particolari condizioni cliniche. Studi condotti mediante la risonanza magnetica funzionale hanno evidenziato che le aree cerebrali più colpite sono: il tronco cerebrale e il sistema limbico, in cui hanno sede vari sistemi automatici che presiedono alla regolazione dei ritmi, della memoria, della capacità nel coordinare l’interazione sociale e affettiva (Adolphs, Sears, & Piven, 2001; Bauman & Kemper, 1985; 1988; Raymond, Bauman, & Kemper, 1996); il cervelletto, le cui alterazioni si esprimono in difficoltà nella coordinazione dei movimenti motori, deficit di interazione sociale e appiattimento affettivo (Bauman & Kemper, 1995; Courchesne et al., 1994; Schmahmann & Shermann 1998); i lobi frontali e prefrontali, associati alle funzioni esecutive, alle capacità legate alla teoria della mente e all’attenzione visiva (Minshew, Luna, & Sweeney, 1999).

Nei soggetti con autismo, le alterazione dei lobi frontali potrebbero essere responsabili di alcuni sintomi tipici quali il distacco sociale e l’incapacità di generalizzare (Luna et al., 2002; Ozonoff, Pennington, & Rogers 1991; Rapin, 1999;), di comprendere storie (Happe et al., 1996), di ricercare visivamentre figure nascoste (Ring et al., 1999), di processare stimoli sociali (Mountz, Tolbert, Lill, Katholi, & Liu, 1995).
Le cause dell’autismo sono a tutt’oggi sconosciute.

Il Disturbo dello Spettro Autistico colpisce 1 o 2 persone su 1000 (Documento NIHM, 1999); è quattro volte più comune nei maschi che nelle femmine anche se, come affermano diversi studiosi (Gillberg, Steffenburg, 1987; Zappella, 1996; Lelord, Sauvage, 1990) nelle femmine la gravità della disabilità è solitamente maggiore.

La famiglia del bambino affetto da autismo che si trova solitamente a svolgere il difficile ruolo di caregiving, si trova dunque a dover far fronte a una tra le situazioni più stressanti se confrontate con le difficoltà implicite in altri disturbi infantili, ciò a causa anche delle scarse conoscenze riguardanti la patologia. Ciò dipende sia dal fatto che la diagnosi viene elaborata dopo un lungo arco di tempo caratterizzato da incertezze, ansie e preoccupazioni da parte dei genitori che continuano a sperimentare un rapporto disfunzionale con il proprio figlio, sia a causa delle manifestazioni comportamentali problematiche.

Spesso i genitori si trovano a dover affrontare il senso di frustrazione e impotenza di “non avere un bambino” o di averne uno comunque inaccessibile. La diagnosi è spesso difficoltosa, e proprio perciò spesso l’autismo viene definito come patologia “invisibile” in quanto i sintomi sono spesso ambigui e nulla nell’aspetto fisico sembra far presagire la presenza del disturbo come avviene in altri disturbi, ad esempio nella sindrome di Down. Il fatto che i sintomi della patologia non sempre siano chiaramente manifesti, rappresenta un fattore di rischio sociale per la famiglia, in quanto quest’ultima spesso non viene compresa e sostenuta dall’ambiente sociale di riferimento. Per far sì che i genitori affrontino efficacemente questa situazione sono necessarie competenze e abilità, a volte particolarmente complesse e sofisticate, che non sempre risultano facilmente presenti e disponibili. L’accumulo di queste condizioni stressanti può generare una crisi all’interno del nucleo familiare, mettendo a rischio il benessere dei singoli membri e del sistema globale (Zanobini, Manetti, Usai, 2002).

Svariate ricerche hanno messo in luce come i genitori di bambini con autismo riportano spesso un maggiore stress legato alle funzioni di accudimento rispetto ai genitori di bambini non disabili o con altre forme di disabilità (Dumas et al., 1991; Rodrigue et al., 1990; Sanders e Morgan, 1997), sottolineando la stretta relazione tra sintomatologia autistica e stress genitoriale (Bebko et al., 1987; Konstantareas e Homatidis, 1989; Szatmari et al., 1994; Kasari e Sigman, 1997; Hastings e Johnson, 2001; Olsson e Hwang, 2002; Dunn et al., 2001; Tunali e Power, 2002).

Una ricerca condotta diversi anni fa, ha messo in evidenza gli alti livelli di stress vissuti dalle famiglie all’interno delle quali è presente un bambino autistico. Gli autori hanno messo in risalto che a differenza delle madri di bambini con sindrome di down, le madri di bambini con autismo siano più stressate, sconvolte e deluse, più preoccupate per la dipendenza del bambino e la gestione del suo comportamento, gli effetti del bambino su altri membri della famiglia e più ansiose per ottenere servizi adeguati (Holroyd, McArthur,1976). Ciò è dovuto, in primis, alla situazione di sgomento in cui la vita genitoriale precipita nel notare che il figlio autistico, apparentemente non autistico, dinnanzi al genitore, mostra poi in concreto un’indifferenza, per cui i genitori si sentono rifiutati dal bambino che non corrisponde ai loro sentimenti. Il secondo motivo è rappresentato da problemi di comportamento del loro bambino, più che per la gravità della disabilità, soprattutto se il bambino sviluppa atteggiamenti auto ed etero aggressivi, davanti ai quali la famiglia spesso non sa come reagire.

Questa conclusione nel confronto di ricerche è stata dimostrata anche in studi più recenti che suggeriscono che le madri dei bambini con autismo vivono esperienze più faticose e stressanti rispetto alle madri con figli con sindrome di down, con peggioramento della salute e delle relazioni interpersonali (Mugno, Ruta, D’Arrigo e Mazzone, 2007), una compromessa qualità di vita e preoccupazione per il benessere psico-fisico dei figli (bullismo, stereotipie) (Gallagher, Phillips, Oliver, Carroll, 2008; Hamlyn, Wright, Draghi, Lorenz,Ellis, 2007; Head e Abbeduto, 2007).

Secondo la teoria generale dello stress e del coping (Lazarus e Folkman, 1984) e secondo teorie specificatamente rivolte a famiglie di bambini disabili (Crnic et al., 1983; McCubbin e Patterson, 1982), le famiglie raggiungono un equilibrio interno grazie all’attivazione di strategie di coping individuali e/o familiari. Dunn e colleghi (2001) e Hastings e Johnson (2001) hanno evidenziato che i genitori che adottano strategie di fuga e di evitamento riportano livelli di stress più elevati rispetto ai genitori che adottano strategie di ristrutturazione positiva.

I genitori, gravati dal duro compito assistenziale, sentono la necessità di ritagliarsi dei momenti per sè in cui dedicarsi ad altre attività o in cui, più semplicemente, “staccare la spina” dai problemi quotidiani legati all’accudimento di un figlio autistico e ciò dovrebbe essere favorito in un lavoro di rete che comprende non solo il caregiver ma l’intero contesto ambientale in cui il bambino autistico è inserito.

La famiglia è il primo ambiente nel quale ogni bambino si trova a vivere; l’integrazione nell’ambiente familiare è quindi il primo obiettivo educativo nei confronti del bambino autistico. Aiutare il bambino autistico a sviluppare le sue capacità sociali e i suoi interessi nell’ambiente domestico deve costituire il primo passo del processo riabilitativo e ha come obiettivo il miglioramento della qualità di vita propria e dell’intera famiglia; il benessere del bambino e la sua educabilità sono infatti imprescindibili dal benessere della famiglia in cui lo stesso è inserito, infatti come affermato da alcuni studiosi: “Non è la disabilità del bambino che svantaggia e disintegra le famiglie: è il loro modo di reagire ad essa e tra di loro” (Dickman & Gordon, 1985).