Psicologia del terrorista

terrorista

Mentre non c’è cosa più semplice che denunciare il malvagio, nulla è più difficile che comprenderlo.

Fëdor Dostoevskij

Sono passati poco meno di due mesi dalla serie di attacchi terroristici che il 13 novembre scorso hanno insanguinato il cuore di Parigi. Un grappolo sapientemente coordinato e tragicamente spettacolare di attentati sferrati dall’ISIS al centro dell’Europa, proprio nella cosmopolita Ville Lumière – ancora scossa dall’attacco del 7 gennaio alla sede di Charlie Hebdo – che, con più di 130 morti (tra cui la veneziana Valeria Solesin) e più di 350 feriti, ha scalzato ogni altra notizia, monopolizzato per giorni i palinsesti e significativamente minato il nostro senso di sicurezza. Tra qualche anno, ognuno di noi ricorderà non solo le immagini riproposte quasi ossessivamente dai media ma anche il momento e la modalità con cui siamo venuti a conoscenza dell’accaduto, ricorderemo con chi eravamo e cosa stavamo facendo all’arrivo della notizia.

Gli attentati terroristici in fondo, siano essi riconducibili ad organizzazioni endogene (autoctone) o esogene, sono finalizzati a questo: seminare panico, suscitare terrore – come tradito dalla stessa etimologia della parola terrorismo – e, di conseguenza, inibire i comportamenti della popolazione “nemica”, per ottenere cambiamenti sociali e politici[1]. L’angoscia sperimentata e meccanismi di identificazione difficilmente controllabili – che sono tanto più forti quanto più la popolazione colpita direttamente dall’attacco viene percepita come “simile” (si pensi al fioccare di bandiere francesi sui nostri profili Facebook nei giorni successivi agli attentati) – vanno infatti a tradursi in condotte di evitamento capaci di incidere sui sistemi sociali ed economici, in quanto la risposta immediata all’atto terroristico è la fuga irrazionale, da parte dell’intera popolazione, da tutte le situazioni che presentano caratteristiche di analogia o che evocano l’evento; si assisterà quindi ad una contrazione dei consumi, poiché si eviteranno cinema, teatri, ristoranti, mezzi pubblici e così via, ed al discredito dello Stato, riconosciuto incapace di proteggere i cittadini.

Alle vittime dirette, perciò, risulta sensato sommare quelle indirette, ovvero i soggetti che saranno inevitabilmente condizionati dall’evento e vedranno quest’ultimo, insieme alla percezione del pericolo di nuovi attacchi, incidere sulla qualità della loro vita. È evidente come non sia stato un caso che a Parigi teatro delle stragi siano stati lo Stade de France, che ospitava la partita amichevole tra Francia e Germania, il Bataclan, in cui era in corso un concerto rock, una pizzeria italiana e due ristoranti: i terroristi islamisti[2] hanno voluto effettivamente colpire la quotidianità, le modalità di aggregazione e lo stile di vita della Francia e della civiltà occidentale.

Nel terrorismo, quindi, il reato in sé rappresenta esclusivamente un mezzo[3]: l’uccisione di un numero più o meno limitato di vittime, che avrà un’eco straordinariamente estesa, diffonderà paura e insicurezza nella popolazione e indurrà destabilizzazione politica e sociale.

Indispensabile affinché tale strumento risulti efficace, come è pacifico, è la cassa di risonanza offerta dai media, in grado di amplificare l’angoscia e trasmetterla a tutta la popolazione, non solo della stessa nazione. Senza giornali e televisione, il terrorismo non potrebbe esistere ed è per tale ragione che il fenomeno è esploso in questo secolo ed in questi anni. Parallelamente, proprio per questo, le organizzazioni terroristiche non sono solo capaci di adeguarsi ai cambiamenti, di aggiornarsi e di affinare la loro preparazione tecnica ma sanno anche essere abili comunicatrici.

Gli attentati che hanno colpito la vicinissima Francia hanno ovviamente riacceso i riflettori anche sulla necessità di potenziare le attività di contrasto alla piaga del terrorismo, sia a breve termine (si pensi ai controlli ed ai presidi armati negli aeroporti e nelle stazioni) che a lungo termine (quali il blocco degli ingenti flussi di capitale che vanno a finanziare le organizzazioni terroristiche, l’intensificazione della cooperazione internazionale – data la natura transnazionale delle stesse organizzazioni – ed il potenziamento delle attività di intelligence); ma, accanto a queste fondamentali modalità di lotta, è anche necessaria, in un’ottica soprattutto preventiva, una comprensione profonda della psicologia degli attentatori.

Nel fenomeno che genericamente etichettiamo come terrorismo la componente psicologica è, in generale, molto forte, sia per le cause che per le conseguenze, sia per i perpetratori (dissenso, vendetta, odio) che per le vittime dirette ed indirette (paura, angoscia, incremento del disagio, inibizione sociale, vissuti di impotenza, intolleranza verso gli estranei e verso coloro che vengono percepiti come diversi[4]).

Ho scritto, anche relativamente alle motivazioni degli attentatori, componente psicologica e non psicopatologica perché purtroppo il mito semplicistico ma rassicurante per cui il terrorista è tale perché pazzo è stato demolito dagli studi scientifici realizzati dall’11 settembre 2001 in poi (andando a confermare ciò che la criminologia aveva già scoperto riguardo la mancata corrispondenza tra crimine in generale e follia).

L’incredibile caratteristica comune alla quasi totalità dei terroristi è proprio la sanità mentale, la “normalità”, poiché la scrupolosa pianificazione degli attentati e la loro esecuzione meticolosa e spesso sincronizzata (come ad esempio negli attacchi del 13 novembre) sono difficilmente riconducibili ad individui che presentano disturbi mentali. Ma c’è un altro motivo per cui tra le schiere sono presenti davvero pochi individui con patologie mentali: sono le stesse organizzazioni terroristiche a scartare chi dà segni di squilibro. I leader ed i reclutatori, infatti, si dimostrano molto selettivi ed allontanano i candidati mentalmente instabili, poco affidabili o imprevedibili (potenzialmente pericolosi per l’organizzazione stessa).

Il filtro politico o ideologico attraverso cui il terrorista guarda il mondo non può essere considerato una malattia.

Parallelamente, ha preso piede tra gli addetti ai lavori anche la consapevolezza dell’inesistenza di un “pacchetto mentale da terrorista”: tra i militanti sono rappresentati tanti tipi diversi di personalità quanti ce ne potrebbero essere in un insieme di persone qualsiasi. E la generalizzazione, forzata se prendiamo in considerazione i componenti di uno stesso gruppo terroristico, diventa improponibile se riferita alla categoria dei terroristi in generale, poiché ogni movimento è diverso dall’altro.

Tuttavia, possiamo individuare alcune caratteristiche che accomunano il pensiero di questi soggetti; tratti ravvisabili in tutti i terroristi sono certamente il manicheismo, la rigidità di pensiero, la mentalità chiusa, l’inesistente propensione al compromesso, il rigetto di punti di vista alternativi, lo scarso senso della realtà e l’odio per la società.

Nella stragrande maggioranza dei casi, i terroristi islamisti attivi sono uomini di età compresa tra i 20 ed i 30 anni[5], pervasi di fanatismo. Essi sono dotati di disciplina, motivazione e forti aspettative di riscatto, dimostrano un impegno continuo e sono contraddistinti da disponibilità all’azione, rapidità di movimento e grande capacità di adattamento allo stress, all’isolamento, alla vita in clandestinità. Per non attirare l’attenzione su di sé, devono essere d’aspetto comune. Inoltre, i suddetti hanno una fede incondizionata nei testi sacri ed in coloro che li interpretano e lasciano che siano questi ultimi a pensare per loro. Il loro livello culturale è medio-basso. La famiglia che hanno alle spalle è solida e molto unita ed ha impartito loro un’educazione fondata sulla separazione e sull’odio verso la diversità. La motivazione che li spinge ad agire è sempre l’odio. Naturalmente, essi sono disposti ad obbedire ciecamente agli ordini che vengono loro impartiti, anche quando richiedono il martirio.

Come affermato dal criminologo Ruben De Luca, il fanatismo del martire (shahid) è reso possibile da cinque elementi: la capacità di prefigurarsi un aldilà idealizzato ed in netta contrapposizione con la vita terrena, la consapevolezza di morire, la forza del rito e della tradizione (i gruppi terroristici utilizzano la ritualizzazione culturale per la trasmissione ai propri seguaci di informazioni sempre uguali a se stesse – quali l’esaltazione del sacrificio della propria vita per la gloria di Dio –, approssimative e difficilmente verificabili ma che, proprio perché identiche per tutti i membri, assicurano un forte senso di appartenenza al gruppo), la fede in un leader carismatico, autoritario ed indiscusso ed infine la cosiddetta pseudospeciazione, ossia il processo per cui il gruppo non considera i soggetti che esulano da esso come esseri umani ma li vede come nemici e come una specie diversa a tutti gli effetti (è questo fenomeno, insieme alla demonizzazione del nemico, che deumanizza l’avversario, lo fa considerare solo come uno degli infiniti membri della schiera nemica, invece che come un individuo a sé stante, e che quindi consente al gruppo di giustificare le atrocità compiute contro di lui).

Inoltre, i terroristi, sempre per raggiungere il cosiddetto disimpegno morale, possono immaginare se stessi come salvatori dell’ordine costituito minacciato dal male, possono vedersi come esecutori che semplicemente obbediscono agli ordini dei capi (dislocazione della responsabilità sul leader o su altri membri del gruppo), possono biasimare allo stesso modo altri membri dell’organizzazione (diffusione di responsabilità) oppure possono ricorrere ad attacchi del tipo “spara e fuggi” oppure all’impiego di bombe ad orologeria proprio per non assistere alla strage da essi provocata. Infine, gli attentatori tendono a ribaltare i ruoli, dipingendosi come rivoluzionari o lottatori per la libertà e definendo i nemici come cospiratori ed oppressori, conferendo rispettabilità a se stessi e razionalizzando le violenze che mettono in atto.

Come si vede, le dinamiche proprie dell’entità gruppale sono fondamentali nella costituzione, nel mantenimento e nelle attività delle organizzazioni terroristiche. Il gruppo, infatti, dotato di un leader carismatico e manipolatore, con un suo linguaggio, una sua simbologia, un codice morale condiviso e la pretesa di un’obbedienza assoluta (un membro che metta in discussione le decisioni o l’ideologia collettiva o che cerchi di svincolarsi dal gruppo è soggetto a severe punizioni), oltre che sfruttare la voglia di riscatto e il senso di ingiustizia[6] dei potenziali nuovi affiliati, è in grado di offrire agli accoliti certezze, significati “nobili” per le loro vite (essere eroi e martiri), autostima e, soprattutto, come già accennato, l’appagamento del loro bisogno di appartenenza (come succede anche nelle sette in generale), in una visione manichea in cui il gruppo è il bene e tutto ciò che cade al di fuori di esso è il male.

In un certo senso, le menti dei membri – che si identificano totalmente nell’organizzazione – non esistono più e vengono sostituite da una sorta di “mente di gruppo”, dal funzionamento a tutti gli effetti psicotico (si vedano a tal proposito gli studi di Wilfred Bion sui gruppi). I nuovi arruolati si distaccheranno progressivamente dalla realtà, non sarà più possibile confrontarsi con loro ed il fanatismo che li pervade diventerà sempre più radicale ed aggressivo.

Certo è che, dall’analisi della psicologia e delle motivazioni della semplice “manovalanza”, ferma restando l’importanza della succitata serie di strategie repressive e preventive, al di là delle valide asserzioni sull’organizzazione terroristica come gruppo, non si può fare a meno di pensare che, dato che la religione è un elemento cruciale su cui i leader fanno leva per assoldare militanti e spingerli a farsi esplodere o a rischiare di farsi uccidere dalla polizia, se si tentasse di promuovere il pensiero critico e si cercasse di diffondere una cultura della razionalità (poco conosciuta anche al nostro Occidente), il terrorismo avrebbe di certo un’arma in meno a disposizione, poiché, come scritto da Rémy de Gourmont nei Dialogues des amateurs (1907), «I padroni del popolo saranno sempre quelli che potranno promettergli un paradiso».

Bibliografia

[1] Secondo la definizione di David Fromkin, il terrorismo è «violenza finalizzata a generare paura, ma lo scopo di tale violenza è che la paura, a sua volta, induca qualcuno, non il terrorista, ad attivare programmi d’azione che soddisfino qualunque cosa il terrorista realmente desideri ottenere».

[2] L’espressione terroristi islamici, che si sente comunemente, è scorretta.

[3] Oltre al reato, per le organizzazioni terroristiche è solo uno strumento anche il denaro, che viene accumulato per finanziarne le attività.

[4] Non dimentichiamo che circa 1/3 delle persone direttamente esposte ad eventi come quelli di Parigi può arrivare a sviluppare un vero e proprio disturbo, come il DPTS (disturbo post-traumatico da stress).

[5] Di norma, alle persone meno giovani – tra i 45 ed i 60 anni – vengono affidati ruoli ideologici e strategici, non esecutivi.

[6] La storia, dalle crociate in poi, ha sempre visto soccombere gli islamici e in loro questo si è tradotto in un profondo senso di ingiustizia ed in un inappagato desiderio di rivincita nei confronti l’Occidente.