Il caregiver nella patologia oncologica

caregiver

“Non siamo solo quello che nasciamo,

per quanto ciò sia importante,

ma siamo anche ciò che facciamo e ciò che subiamo”.

Con i termini “cancro”, “neoplasia”, “tumore” o “malattie neoplastiche”, ci si riferisce ad un insieme eterogeneo di circa 200 malattie caratterizzate da una crescita cellulare svincolata dai normali meccanismi di controllo dell’organismo.

Malgrado i grandi e continui progressi nel campo della ricerca e della terapia, i tumori rimangono una delle emergenze sanitarie.

La diffusione dei tumori aumenta dell’ 1% ogni anno, in particolare nei Paesi meno sviluppati (che tendono ad adottare abitudini occidentali nocive come il consumo di tabacco e diete ricche di grassi).

Il cancro è, ad oggi, la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari.

Il termine Tumore, deriva dal latino tumor (gonfiore, rigonfiamento). Viene utilizzato in medicina con accezioni più o meno specifiche; solitamente la si usa per indicare una patologia caratterizzata da un abnorme accrescimento di un tessuto dell’organismo.

Possiamo suddividere i tumori in due grandi categorie:

1. tumori benigni;

2. tumori maligni.

Il termine cancro si riferisce in modo generico a tutti i tumori maligni.

In un organismo sano esiste un perfetto equilibrio fra vita e morte cellulare (omeostasi cellulare); le cellule si sviluppano, assolvono le loro funzioni e infine muoiono, mentre altre si riformano; si parla pertanto di equilibrio fra divisione cellulare (mitosi) e morte cellulare programmata (apoptosi). Nel momento in cui tale equilibrio viene a mancare, può svilupparsi un cancro.

Ogni giorno in Italia si scoprono 1.000 nuovi casi di cancro

Per quanto riguarda la diffusione dei tumori, tra gli uomini prevale il tumore della prostata che rappresenta il 20% di tutti i tumori diagnosticati; tra le donne, il tumore della mammella è il più frequente, rappresentando il 29% di tutti i tumori.

I dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) indicano per il 2011 circa 175.000 i decessi attribuibili a tumore.

Le malattie neoplastiche hanno, tra le loro cause, una combinazione di diversi fattori interni ed esterni, genetici ed ambientali.

Parlando di fattori esterni, ci riferiamo sia a quelli legati all’ambiente di vita e di lavoro (agenti infettivi, prodotti chimici, ecc.) che allo stile di vita delle persone (alimentazione, livello di attività fisica, fumo).

E’ ben nota ormai l’influenza degli aspetti psicologici sulla salute fisica, non escludendo per cui l’importanza della salute psicologica sulla formazione e sviluppo dei tumori.

Il tumore non è una malattia localizzata ma sistemica, non è costituito solo da cellule tumorali, ma anche da stroma derivato del tessuto ospite, da vasi neoformati, dal sistema immunitario che tollera o meno le cellule tumorali, sotto il controllo del sistema psico-neuro-endocrino. Il tutto è in equilibrio attraverso una miriade di molecole di comunicazione: citochine, fattori di crescita, recettori, ormoni, molecole di adesione, ecc. Il tumore vive in simbiosi/parassitosi nell’ organismo che lo ospita, lo “tollera” (Aragona 1988, Lazar 1996, Riley 1981).

Diversi studi concordano sul fatto che i mediatori biologici di una risposta, che possono agire sia sull’incidenza che sulla diffusione metastatica di tumori sembrano influenzare principalmente il sistema immunitario (Riley 1981, Page 1994, Ben Eliyau 1991), sui meccanismi di riparazione del DNA o di induzione dell’apoptosi (Kiecolt-Glaser 1999); il cui meccanismo alla base è il sistema psico-neuro-endocrino.

Vi è una stretta connessione tra salute psichica e insorgenza di tumori e la qualità di vita a seguito della diagnosi oncologica.

In uno studio condotto da Watson è stato rilevato ad esempio che le pazienti con tumore della mammella e depresse, avessero una minore sopravvivenza rispetto a quelle non depresse (Watson, 1999). Ma il tumore stesso può secernere sostanze (citochine, fattori di crescita, ormoni, ecc.) che a loro volta possono agire sul sistema nervoso centrale ed indurre sintomi depressivi.

I dati dell’Associazione Italiana Registri Tumori (A.I.R.T.U.M.) relativi al 2014 mettono in evidenza che negli ultimi anni, sono complessivamente migliorate le percentuali di guarigione:

il 63% delle donne e il 57% degli uomini è vivo a cinque anni dalla diagnosi.

Merito soprattutto della maggiore adesione alle campagne di screening, che consentono di individuare la malattia in uno stadio iniziale, e della maggiore efficacia delle terapie.

Il cancro non rappresenta solo un problema individuale ma investe l’intero nucleo familiare, sconvolgendone relazioni, abitudini quotidiane e rapporti sociali (Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, Vol.30n.3,2008).

In Italia, così come a livello internazionale, l’assistenza ai malati di cancro è in gran parte a carico degli “informal caregiver” che, nella maggior parte dei casi è rappresentato dai familiari più stretti. (Zavagli V. et al., 2012)

La figura del caregiver familiare è chiamata a rispondere ai bisogni del paziente a diversi livelli quali quello sanitario, emotivo, finanziario e spirituale, lungo tutte le fasi della malattia.

Nelle diverse fasi della malattia e con il maturare dell’esperienza il coinvolgimento del caregiver può assumere diversi aspetti, a seconda delle diverse fasi di malattia vissute dal proprio familiare:

Nella fase della diagnosi il caregiver è generalmente coinvolto nel momento “traumatico” che coinvolge l’individuo, ma anche l’intera famiglia.

A questa prima fase di shock ne fa seguito una di negazione e razionalizzazione, in cui il caregiver accompagna il paziente nella ricerca di strutture e terapie adeguate.

Solo in seguito, solitamente, il caregiver sperimenta una fase di accettazione e il raggiungimento di un nuovo equilibrio che tiene conto delle esigenze e dei cambiamenti che la malattia ha provocato.

La responsabilità attiva del caregiver familiare aumenta nella fase del trattamento, quando, oltre al cambiamento delle normali attività della vita quotidiana del paziente e caregiver, si associa il compito di sostenere il paziente nella gestione dei sintomi, causati dai trattamenti. In questa fase, il familiare di riferimento, solitamente, inizia a modificare la gestione del tempo lavorativo e del tempo libero e vive in uno stato prolungato di tensione e preoccupazione rispetto all’esito delle cure. Tale stato può essere influenzato dalla situazione emotiva del paziente o influenzarla a sua volta.

Al termine dei trattamenti il caregiver si trova ad affrontare o una remissione della malattia o una ripresa della stessa sotto forma di assenza di remissione.

Inoltre, la progressione della malattia può essere caratterizzata da un aumento di sentimenti di impotenza, mancanza di speranza e angoscia.

La fase palliativa/ terminale rappresenta un momento di stress fisico ed emotivo particolarmente intenso per il caregiver.

Non va dimenticato che, spesso, questa figura sostiene attività di cura che richiedono abilità di tipo infermieristico e psicologico per le quali in generale non dispone di un’adeguata formazione ed è posto in una situazione di non sufficiente distacco emotivo. Pertanto, lungo il percorso dell’esperienza di assistenza, il caregiver si trova a svolgere compiti importanti per la persona malata principalmente su due fronti: quello delle cure infermieristiche e quello del sostegno psicologico. Inoltre, la relazione affettiva con l’ammalato rende difficile un distanziamento protettivo del caregiver rispetto alle reazioni emotive e ai vissuti del paziente (Bolis T. et al., 2008).

Secondo uno studio condotto da Scherbring, risultava una relazione inversa tra il livello di stress e il livello di preparazione all’attività di caregiving. Infatti,più i caregiver si sentivano preparati ad affrontare il loro ruolo ,più diminuiva il livello di stress al quale si sentivano sottoposti.

Il caregiver costruisce passo dopo passo un’esperienza di assistenza non immune da molteplici ripercussioni a livello emotivo, costituendo uno stress di tipo primario ma, allorché interferisce anche con gli aspetti della vita quotidiana, rappresenta uno stress di tipo secondario che inficia la qualità della vita nella sua accezione multidimensionale, sconvolgendo la sfera fisica, psicologica, sociale, lavorativa e finanziaria (Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, Vol.30 N.3,2008).

I fattori di rischio per il benessere psicofisico del caregiver sono l’isolamento sociale, la scarsa conoscenza della malattia, la ridotta disponibilità nelle relazioni sociali, i sensi di colpa, la tensione e l’affaticamento nella relazione, la scarsa capacità di coping.

Sono fattori protettivi, invece, la presenza di un nucleo familiare in grado di fornire aiuto sia sul piano pratico sia nella condivisione di responsabilità e di emozioni, una buona conoscenza della malattia e delle modalità di gestione più efficaci, la capacità di problem solving e di buone strategie di coping (Tognetti A., 2004).

Uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Oncology ha scoperto che il 13% dei familiari direttamente coinvolti nella cura di un paziente oncologico ha sintomi di disagio psichico (depressione, ansia) ma che meno della metà di essi chiede aiuto ad uno specialista. Il disturbo psichico più frequente (8% dei caregiver considerati) è l’attacco di panico.

Quando ad ammalarsi di tumore è un bambino, la sofferenza psicologica dei genitori fino alla vera patologia è la regola. Uno studio pubblicato recentemente sul Journal of Family Psychology, ha dimostrato che quasi tutti i genitori dei bambini malati di cancro soffrono di disturbo post-traumatico da stress (DPTS), sia durante la cura ma, a volte, anche dopo la guarigione dei figli.

Il DPTS si manifesta soprattutto con insonnia, vertigini, tachicardia, sintomi a cui spesso non viene dato il giusto peso; accade spesso perciò che gli stessi genitori diventano pazienti, pazienti invisibili (Bolis, Masneri, Punzi, 2008).

Ci si trova spesso di fronte a una sorta di coartazione del sistema comunicativo familiare nell’affrontare tematiche come la malattia, la morte e il lutto.

La richiesta d’informazioni chiare e mirate e di una comunicazione efficace sembra essere uno dei bisogni primari da cui partire. Jasma e altri (2005), nell’indagare il tipo di supporto richiesto dagli informal caregivers nella fase delle cure palliative, mettono in luce come il 30% del campione intervistato esprima come prioritari bisogni relativi alla comunicazione, in particolare il bisogno di essere ascoltati (84%), di discutere questioni delicate (76%) e di parlare liberamente del cancro (76%).

Il desiderio di proteggere il malato dalle implicazioni psicologiche e sociali della malattia e il tentativo di evitargli preoccupazioni e ansie circa l’andamento della stessa, è la causa che spesso può aumentare il carico d’ansia e di responsabilità del caregiver (Bolis, Masneri, Punzi, 2008).

I vari tipi di intervento psicologico-psicoterapeutico e sul supporto sociale sembrano influire positivamente sia sulla qualità di vita, che sulla progressione tumorale e sulla sopravvivenza globale (Spiegel 1993, Fawzy 1999, Kogon 1997, Kiecolt-Glaser 1999, Maruta 2000), probabilmente attraverso influenze sul sistema neuro-endocrino-immunitario (Greer 1999, Kiecolt-Glaser 1999).

Appare dunque impossibile pensare di poter aiutare il malato oncologico senza pensare di aiutare chi se ne prende cura (Zavagli V. et al., 2012).