Come nascono le dipendenze?

dipendenza

a cura di Mattia Mezzetti

Abstract

Il concetto di dipendenza è nato in relazione all’(ab)uso di sostanze, tipicamente quelle stupefacenti e nocive. In un secondo momento, il suo significato è stato allargato e ci si può riferire oggi, con la stessa parola, anche alle dipendenze di tipo affettivo o comportamentale.

Il termine dipendenza si riferisce a un’alterazione anche profonda del comportamento e si caratterizza per una ricerca ininterrotta, eccessiva e anomala della sostanza o attività della quale non si possa più fare a meno. Quel che è peggio è che neppure la consapevolezza – molto spesso presente – del fatto che ci si stia facendo del male con le proprie mani è sufficiente per uscirne.

Attualmente, non sono noti tutti i meccanismi che stimolino le persone a diventare schiave di una dipendenza. Sappiamo che esiste un’area dell’encefalo preposta al rinforzo comportamentale e alla motivazione, denominata corteccia cingolata anteriore. Essa subisce una iperstimolazione dopaminica nel momento in cui scatta la dipendenza e finisce per ricercare continuamente quella stessa sensazione di piacere e benessere. Un insieme di fattori psicologici, sociali e culturali ci avvicina alla dipendenza. Alcune persone, poi, sono geneticamente predisposte a sviluppare dipendenze e possono trasmettere il tratto alle generazioni che li seguiranno.

L’indagine clinica studia la ripetitività dei comportamenti e delle azioni che anticipano la dipendenza, così da poterla riconoscere preventivamente e diagnosticare adeguatamente. L’obiettivo di questo articolo è approfondire l’insorgenza di questa condizione rispondendo all’annosa questione relativa a come nascano le dipendenze e presentando alcuni accorgimenti capaci di prevenirne la nascita.

1.   Che cos’è una dipendenza

Per capire da cosa nasca una dipendenza è necessario prima comprendere bene che cosa sia. La dipendenza si radica nel vissuto di una persona e ne lede spirito e volontà, arrivando a condizionarne la quotidianità e a costringerla a ritagliarsi spazi per assumere il prodotto di cui non può più fare a meno.

Secondo la definizione della American Society for Addiction Medicine (ASAM), la dipendenza è un disturbo medico cronico, trattabile, causato da interazioni complesse tra i circuiti cerebrali, la genetica, l’ambiente di vita e le esperienze individuali. Chi soffre di una dipendenza si ritrova a fare uso di sostanze nocive o a tenere comportamenti che divengono spesso compulsivi e si protraggono nel tempo, nonostante le serie conseguenze.

A partire dal 2011, l’opinione pubblica ha iniziato a interessarsi in maniera più concreta alla dipendenza e ha cominciato ad afferrare il background di questa condizione. Oggi è conoscenza diffusa che si tratti di un disturbo neurologico cronico, e che le possibilità di recupero e guarigione siano sensibilmente aumentate, rispetto ai decenni trascorsi. Simultaneamente, è molto cresciuta anche la consapevolezza che, nello spettro della dipendenza e verso il definitivo recupero da essa, giocano un ruolo molto importante la prevenzione e la riduzione dei danni causati dalla sostanza.

Già nel 1997, parlando della dipendenza da droghe, si definiva tale condizione come un disturbo cronico, che provocava ricadute e portava con sé aspetti sociali e comportamentali. Queste conseguenze non sono soltanto direttamente collegate alla dipendenza, bensì sono parti rilevanti dell’esperienza del dipendente, una volta che raggiunga tale stato. I ricercatori hanno dimostrato che esistono evidenti differenze nel funzionamento dell’encefalo di una persona afflitta da dipendenza e quello di una che non lo sia. Non solo. Abbiamo anche prove del fatto che, indipendentemente dalla sostanza senza la quale non si sia più in grado di stare, vi sono disturbi comuni all’interno della storia clinica di due dipendenti a un simile livello di tolleranza (Leshner, 1997).

Sia il DSM-V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, quinta versione) sia l’ICD-10 (International Classification of Diseases, decima versione) descrivono la dipendenza come una condizione che si rende manifesta nel consumo compulsivo di una sostanza, a dispetto delle conseguenze avverse. Spesso ciò porta a perdere il controllo cognitivo, e volontario, del comportamento. Il nostro cervello diventa infatti monomaniaco e sviluppa una sola esigenza: procurarsi la prossima dose (dipendenza da stupefacenti); trangugiare il prossimo bicchiere (dipendenza da alcool); giocare la prossima partita (dipendenza da videopoker o videogiochi); guardare il prossimo video per adulti (pornodipendenza) e così via. I concetti di compulsione e perdita di controllo sono più afferenti alla dimensione morale che a quella medica, ma sono comunemente usati, per maggiore chiarezza, nella trattazione della dipendenza. Al tempo della pubblicazione del suo già citato articolo, Leshner era direttore del National Institute of Drug Abuse, il più grande ente mondiale dedicato allo studio e l’intervento sulle tossicodipendenze. Il professore fu tra i primi a scrivere che l’abuso di sostanze è in grado di modificare molto a fondo le strutture e le funzioni del sistema nervoso centrale, tanto da azionare una metaforica leva nell’encefalo e condurlo a una condizione di ricerca forsennata e uso compulsivo. Di fatto, si tratta di quella che definiamo condizione di dipendenza.

2.   Come si riconosce l’insorgenza di una dipendenza

Quando parliamo di dipendenza, non intendiamo né qualcosa che abbia a che fare con la frequenza né qualcosa legato all’intensità della sostanza assunta. Praticamente qualunque cosa può dare dipendenza. Questa condizione è legata all’impossibilità di scelta, dovuta a meccanismi compulsivi e a pattern complessi di emozioni, pensieri e azioni che ruotano attorno a una dinamica forte e alla quale è molto difficile sottrarsi: quella del controllo. Quest’ultimo è vissuto come egosintonico, esattamente come avviene con i disturbi della personalità. Ciò significa che il dipendente non sarà cosciente di essere vittima di questa condizione, in quanto la interpreterà come una parte coerente della propria personalità, sentendosi in perfetta sintonia con i propri sintomi e ritenendo dunque di trovarsi in buona salute. Il controllo è alla base del sintomo di dipendenza in quanto chiunque si trovi in questa condizione è ben conscio di non potersi controllare, quando va in astinenza dalla sostanza da cui dipende. Come meccanismo di autodifesa, il dipendente costruirà castelli mentali illusori, al fine di ingannarsi e pensare di avere il polso della situazione. In realtà, sarà la dipendenza ad avere il controllo ed egli non eserciterà alcun tipo di autorità sugli eventi che gli accadono, limitandosi a prendere atto che dovrà fare uso di quel che gli dà dipendenza, o non si sentirà bene.

Le emozioni di chi dipende sono come sedate e gli impediscono di riconoscere e gestire pensieri ed emozioni complessi. Queste capacità vengono infatti annebbiate dalla dipendenza, la quale diviene l’unico fulcro dell’umore e del benessere. Ciò non può che comportare l’insorgenza di una polarizzazione cognitiva, come si definisce in psicologia, ovvero un pensiero ossessivo rivolto alla sostanza che dà dipendenza. Questo stato è degenerativo e distruttivo e, con il tempo, finisce per fare piazza pulita di tutto il resto e diventare il fulcro di ogni giornata: quello cui si pensa prima di andare a dormire e non appena ci si risvegli, sempre che non si sia tanto dipendenti da sognarlo persino nottetempo. Quando abbiamo a che fare con qualcuno tanto invischiato e irretito da queste dinamiche, siamo al cospetto di un dipendente.

Pensando a chi soffre di questo disturbo, siamo soliti visualizzare nella nostra mente una persona che non possa fare a meno di un’unica sostanza nociva: un eroinomane, un cocainomane, un alcolista e così via. La questione della dipendenza è però ben più complessa. L’assunzione multipla è infatti un elemento comune della tossicodipendenza e, in seguito all’introduzione di nuove forme di consumo, come ad esempio il fenomeno fentanyl e le sue varianti, si è esteso sempre più (Pinamonti e Rossin, 2004). Chi dunque fa uso abituale, e ininterrotto, di sostanze è probabilmente un dipendente, da tutte o da quelle tra loro che utilizza con maggior frequenza.

Riconoscere la dipendenza è il primo passo per poterla affrontare. A seconda del livello di avanzamento della condizione, il dipendente potrebbe essere più o meno disponibile a portare a galla il suo problema. È possibile che la vittima abbia una qualche consapevolezza della propria condizione, come scritto, ma non è affatto scontato che abbia interesse a riconoscerla come problematica e a volerne parlare di fronte a conoscenti o specialisti.

3.   La nascita della dipendenza

La scienza non è a completa conoscenza dei meccanismi del nostro cervello che sottendono alla dipendenza. Nonostante si approfondisca il tema ormai da tempo, permangono ancora degli angoli di buio che attendono di essere illuminati a dovere. La ricerca attuale è riuscita a stabilire l’esistenza di un’area preposta, all’interno dell’encefalo, alla motivazione e al rinforzo del comportamento. Si tratta della corteccia cingolata anteriore (ACC), la quale gioca un ruolo chiave nella nascita e nello sviluppo della dipendenza. Essa viene infatti iperstimolata nel momento in cui si produce una quantità eccessiva di dopamina. Tale neurotrasmettitore si attiva ogni qual volta vi sia una dipendenza, sollecitando il dipendente a iniziare la sua spasmodica e disperata ricerca del comportamento, o della sostanza, che lo ha ridotto in questo stato.

La dopamina entra in azione percorrendo un circuito mesolimbico. Di esso fanno parte amigdala, ippocampo e nucleo accumbens. Questo insieme di organi è quello tradizionalmente associato agli effetti acuti di droghe e sostanze stupefacenti sulla memoria, e guida anche le risposte condizionate associate al craving, lo stato più grave della dipendenza, quello nel quale non si riesce più a rinunciare alla sostanza e si vive in un continuo stato di ricerca febbrile (to crave, in inglese, significa proprio desiderare al punto che non se ne possa più fare a meno).

Si ritiene, inoltre, che il suddetto circuito sia anche quello che viene coinvolto tutte le volte in cui osserviamo cambiamenti emozionali e motivazionali repentini, proprio come quelli tipicamente riscontrati nei consumatori dipendenti durante i periodi di astinenza dal prodotto. L’amigdala, l’ippocampo e i loro circuiti presiedono all’attivazione della memoria e portano a un ulteriore enfatizzazione nel craving, diminuendo anche il controllo inibitorio delle porzioni del cervello non direttamente collegate alla questione della dipendenza.

Le cellule della dopamina vengono infatti stimolate e riaccese dalla corteccia orbitofrontale e dal cingolo anteriore (Karreman e Moghaddam,1996). Il circuito dopamino – mesocorticale comprende, nella sua interezza: la corteccia prefrontale, quella orbitofrontale e il cingolo anteriore. La comunità scientifica ritiene che sia probabile un suo coinvolgimento nell’esperienza conscia dell’intossicazione da droga, nella rilevazione dell’incentivo dello stupefacente, nell’aspettativa, nonché nel più grave craving, di esso e persino nella somministrazione compulsiva della sostanza. Si stanno ancora portando avanti test ed esperimenti per ottenere conferma di questa tesi, ma è ormai pressoché dimostrato come la natura di queste interazioni interessi direttamente la risposta alla droga.

La scoperta che gli esatti punti del cervello nel quale si elaborano le informazioni evidenzianti un comportamento compulsivo siano proprio la corteccia orbitofrontale e il cingolato anteriore, si deve a un’équipe di studenti e ricercatori dell’università della California a Berkeley.  La squadra di ricerca era guidata dal professor Jonathan D. Wallis, primo firmatario dell’articolo datato 2011 e pubblicato da Nature Neuroscience (Kennerley et al., 2011). Il team è partito da una semplice domanda: come mai la sostanza o il comportamento che ci dà dipendenza è così forte da renderci tanto difficile il compimento di una scelta più sana e salutare? Per rispondere a tale questione, gli accademici hanno analizzato l’attività neurale di alcuni macachi chiamati a riconoscere una serie di figure differenti tra loro, ma comunque familiari. Ogni volta che il riconoscimento andava a buon fine, gli animali venivano ricompensati con del succo di frutta. I ricercatori hanno osservato come le scimmie imparassero presto che la ricompensa non era uguale per ogni riconoscimento, bensì vi erano figure che garantivano una quantità di succo più elevata. Tramite scansione dell’encefalo degli animali, gli accademici hanno evidenziato tutte le elaborazioni mentali avvenute nella mente dei macachi, durante le loro riflessioni, e quali aree del cervello si attivavano nel corso della analisi rischi – benefici e nella valutazione dei costi di ogni riconoscimento.

Una volta terminato l’esperimento, e analizzati i risultati, è stato evidenziato come la corteccia orbitofrontale consenta di passare velocemente dall’analisi di situazioni nelle quali va presa una decisione importante ad altre più leggere, ove si seguono soltanto gusti, voglie momentanee o preferenze personali. In una seconda fase del test, Wallis e i suoi hanno concluso che chi abbia riportato danni alla corteccia orbitofrontale non è più in grado di modulare l’intensità dell’attività neurale e non riesce a fare scelte in maniera lucida. Uno stato di dipendenza severo può portare a una condizione equiparabile.

In merito alla corteccia cingolata anteriore, lo studio mette in evidenza come essa ci consenta di capire rapidamente se le decisioni che prendiamo siano conformi alle nostre aspettative. È lei che si attiva quando, ad esempio, dopo aver consumato un cibo che ci ha fatto male, scegliamo di non procurarcelo più. Questo segnale si offusca nel dipendente, e può anche venire completamente a mancare. Esattamente come avviene nel caso di chi riporti un malfunzionamento in questa specifica regione cerebrale. A questo punto, non si è più in grado di controllarsi adeguatamente, come si dovrebbe, e si continua a ripetere una scelta nociva e che arreca danno.

Riferimenti bibliografici

  1. American Society for Addiction Medicine, Definition of Addiction, 2012.
  2. Leshner A.I., Addiction is a brain disease, and it matters, in Science, volume 278, numero 5335, 1997
  3. Pinamonti H., Rossin M.R., Polidipendenza – l’assunzione multipla di sostanze in una prospettiva interdisciplinare di clinica integrata, 2004
  4. Karreman M, Moghaddam B, The prefrontal cortex regulates the basal release of dopamine in the limbic striatum: an effect mediated by ventral tegmental area, 1996
  5. Kennerley S.W., Wallis J.D., Behrens T. E., Double dissociation of value computations in orbitofrontal and anterior cingulate neurons, in Nature Neuroscience, volume 14, 2011