Embodied Cognition e Gendered Embodiment Theory

A cura di: Davide Tecchiati

Introduzione

L’Embodied Cognition è la teoria secondo la quale sia il corpo in interazione con l’ambiente esterno a modellare i processi cognitivi (Wilson, 2002). Se ne parlerà nella prima parte del presente articolo, in cui si andranno ad esporre alcune ricerche (es. Glenberg & Robertson, 1999 citati da Wilson, 2002; Ballard et al., 1997) svolte in questo ambito di studi.

Nella seconda parte si esporrà la “Gendered Embodiment theory”, secondo cui è anche il genere ad influenzare la rappresentazione corporea che gli individui hanno di sé stessi e la qualità e quantità di esperienze che essi vivono. West & Zimmerman in Gender & Society (1987) furono i primi a rilevare come la rappresentazione corporea sia mediata anche da fattori quali: le aspettative di genere, gli stereotipi di genere e da comportamenti e azioni stereotipiche.

Sebbene siano presenti in letteratura diverse ricerche (Velija et al., 2012; Castelnuovo & Guthrie, 1998; Davis, 1997), soprattutto in ambiti sportivi comunemente associati al genere maschile, volte a corroborare le considerazioni di West & Zimmerman, l’attenzione in questo articolo sarà focalizzata principalmente sui lavori svolti dalla Dott.ssa Davis (1997) e dal Dott. Mierzwinski (2014).

Lo scopo principale del presente articolo è quello di far conoscere a grandi linee le Teorie sopra esposte e, a supporto di esse, le principali ricerche svolte in ambito sportivo.

1. Embodied cognition: funzioni cognitive, corpo e ambiente

“L’esperienza con il mondo esterno arriva in ogni momento attraverso il corpo. Inteso come centro, della visione, dell’azione e dell’interesse. Esso si trova nel “qui” e agisce nell’ “ora” […].” (James, 1890, p. 154; cit. da Raab & Araújo, 2019)

Espressioni idiomatiche quali “mi sento giù” o “ho fatto i salti di gioia” fanno comprendere quanto l’espressione di emozioni, quali ad esempio la gioia o la tristezza, sia fortemente legato agli atteggiamenti e alle posture assunte dal proprio corpo quando le si esprimono. Uno dei temi, oramai centrali, nelle scienze cognitive è quello della embodied cognition, ovvero la teoria secondo la quale i processi cognitivi sono profondamente radicati nell’interazione che il corpo ha con il mondo esterno (Wilson, 2002).

La prospettiva che si andrà a presentare si distacca molto dalle concettualizzazioni di Cartesio riguardo la visione dicotomica di mente e corpo (“res cogitans e res extensa”).

Wilson (2002), in una rassegna della letteratura sull’embodied cognition, nota come non sia possibile considerarla come una dimensione unica e che la letteratura (Clark,1997; Pfeifer & Scheier 1999; Wiles & Datnall, 1995 citati da Wilson, 2002) necessita di una valutazione accurata di alcune affermazioni.

Nella sua rassegna indica alcune dimensioni caratteristiche dell’embodied cognition, ossia:

  • La dimensione situazionale e temporale, che sottolinea la necessità di considerare gli individui all’interno del contesto in cui vivono e del loro periodo di vita, oltre a ciò, è necessario prestare attenzione anche alla loro cultura di riferimento, allo stato socioeconomico, e alle norme sociali
  • La limitatezza del sistema cognitivo
  • Le cognizioni “off-line” basate sul corpo, ovvero quelle cognizioni essenziali per svolgere varie attività come ad esempio leggere un libro o risolvere un cruciverba. Esse coinvolgono funzioni cognitive quali il problem solving o il recupero delle informazioni dai magazzini di memoria.

Ai fini del presente articolo verranno trattate e approfondite unicamente le cognizioni “off-line”.

Due esperimenti realizzati alla fine degli anni Novanta del ‘900 hanno messo in luce la seconda dimensione che caratterizza l‘embodied cognition, ossia che le cognizioni “off-line” siano basate sul Corpo.

1.1 Ballard e l’esperimento dei cubi colorati

Nel corso di questo esperimento (Ballard et al., 1997) ai partecipanti era chiesto, in un tempo definito dai ricercatori, di riprodurre dei patterns di blocchi colorati che venivano presentati in ordine sparso sullo schermo di un computer.

La registrazione dei movimenti oculari dei partecipanti ha evidenziato che vi erano ripetuti riferimenti al modello di blocchi presentato e che questi movimenti avvenivano soprattutto in determinati momenti, ad esempio quando i soggetti dovevano raccogliere informazioni in merito al colore dei blocchi e alla loro posizione nel pattern proposto

A seguito di questi risultati gli autori sostengono che tali comportamenti siano alla base di una sorta “memoria strategica minimale” e mostrano come questa strategia sia la più frequente tra i soggetti che hanno preso parte all’esperimento.

1.2 Glenberg & Robertson: compito di orientamento visuo-spaziale

Glenberg & Robertson nel 1999 (cit. da Wilson, 2002) propongono un disegno sperimentale basato su un compito di orientamento visuo-spaziale. Ai partecipanti, suddivisi in due gruppi di soggetti, fu chiesto di utilizzare una bussola e una mappa.

Durante la fase di insegnamento delle istruzioni utili a svolgere il compito assegnato, al gruppo sperimentale fu concesso di etichettare gli oggetti che componevano l’ambiente circostante, mentre al gruppo di confronto no. I ricercatori dimostrarono che a coloro i quali fu permesso di etichettare gli oggetti che componevano l’ambiente, performavano meglio durante la fase di test rispetto al gruppo di confronto.

Dunque il cervello, per orientarsi nel mondo, al fine di risparmiare risorse cognitive, si basa su ciò che l’ambiente stesso è in grado di fornirgli come informazione utile a trovare una soluzione al problema presentato.

L’attività della mente che concerne, dunque, le funzioni cognitive “off-line”, anche quando prese al di fuori del contesto di riferimento, si basano su meccanismi che servono per l’interazione con l’ambiente e tali meccanismi sono i processi sensoriali e quelli di controllo motorio.

Le informazioni così apprese diventano parte del sistema cognitivo “off-line” e dunque parte dei “magazzini” deputati alla memoria, tale tipologia di immagazzinamento delle informazioni promuove l’utilizzo di euristiche cognitive, ovvero di “scorciatoie” che il nostro cervello mette in atto quando si presenta una situazione simile a quella precedentemente vissuta.

2. Gendered Embodiment Theory: Definizione e ambiti di ricerca

“Il corpo non è una semplice astrazione, ma è incapsulato nell’esperienza del vivere quotidiano”. (Davis, 1997)

Nel paragrafo precedente si è descritto come le funzioni mentali sono espresse attraverso il corpo in costante interazione con il mondo esterno. A tal proposito West & Zimmerman (Gender & Society, 1987) rilevano come la rappresentazione corporea sia mediata anche da fattori quali:

  • Le aspettative di genere, ovvero il modo in cui gli altri si aspettano che una persona si comporti in base al genere di appartenenza;
  • Gli stereotipi di genere, quelle valutazioni imprecise e resistenti al cambiamento che le persone hanno su un determinato genere;
  • Comportamenti e azioni stereotipiche compiuti quotidianamente dalle persone, ne sono un esempio la tipologia di attività lavorativa svolta o il tempo speso nella cura personale.

Tali considerazioni aprono a diverse ricerche in ambito sportivo (Velija et al., 2012; Castelnuovo & Guthrie, 1998; Davis, 1997), nella fattispecie in quegli sport comunemente associati al genere maschile (es. sport da combattimento, baseball) dove, però, le donne stanno faticosamente divenendo parte integrante.

Alcuni studi (Velija et al., 2012; Dowling, 2000; Castelnuovo & Guthrie, 1998; Davis, 1997) hanno evidenziato come tale rappresentazione corporea sessualizzata sia frutto soprattutto degli stereotipi e delle aspettative di genere i quali portano ad un’errata percezione del corpo femminile e delle sue potenziali prestazioni creando un circolo vizioso che si auto alimenta.

2.1 Disparità di genere nel lancio della palla: stereotipi e abilità motorie

In uno studio condotto negli Stati Uniti in una classe della seconda elementare (Dowling, 2000 cit. Roth & Basow, 2004) si chiedeva ai bambini e alle bambine di tirare una palla da baseball con il braccio dominante e successivamente con quello non dominante.

Dai dati raccolti è emerso che quando il lancio era effettuato con il braccio dominante rilevarono che i bambini tirassero il 72% più veloce rispetto alle bambine; la performance risultava identica quando i bambini e le bambine lanciavano la palla con il braccio non dominante.

Secondo Dowling (2000) il miglior risultato ottenuto dai bambini è dovuto non alla differenza di sesso, ma all’esperienza data da una maggiore quantità di tempo spesa ad allenarsi, questo perché, nella società americana, solitamente alle donne non viene insegnato a lanciare, in quanto ritenute meno capaci rispetto agli uomini.

Mansfield (2002) evidenzia come la percezione dei corpi femminili si sia evoluta “coerentemente con l’instaurarsi degli ideali di bellezza femminile”; similarmente Thing (2001) suggerisce che l’immagine della femminilità nelle società occidentali ha associato la visione delle donne alla passività e alle emozioni “soft”, intendendo quelle emozioni che stereotipicamente vengono associate al genere femminile come ad esempio l’amore. Di conseguenza, un aumento della soglia di aggressività, considerata invece un’emozione “hard”, è percepita (e tollerata) differentemente se ad esprimerla è un uomo o una donna. Sulle, infatti, viene utilizzato un meccanismo di vittimizzazione e vergogna, utile a mantenere un controllo sociale basato sul genere.

2.2 Gendered Embodiment nell’Ultimate Fighting Championship: Corpi Feriti, Sessualizzati e Violenti

Mierzwinski et al. (2014), hanno condotto una ricerca qualitativa all’interno della Women Mixed Martial Arts (WMMA) della Ultimate Fighting Championship (UFC), ovvero il campionato che raccoglie i/le combattenti migliori del mondo nel campo della WMMA e MMA.

A seguito di tale studio i ricercatori indicano tre possibili elementi che concorrono al gendered embodiment e al processo di vittimizzazione e vergogna, ossia:

  • La possibilità che sul corpo siano visibili delle ferite (bruised bodies – corpi feriti): nella pratica delle arti marziali e delle arti da combattimento i danni al corpo sono inevitabili. Secondo gli autori quando sono i combattenti maschi ad esibire delle ferite (es. contusioni e lacerazioni) queste non farebbe altro che confermare la durezza dei combattenti stessi rafforzando la mascolinità percepita. Al contrario, quando ad essere feriti sono i corpi delle donne (Hargreaves, 1997) ciò che viene interpretato dalle persone è che tali ferite siano dovute ad un partner violento e non dal fatto che esse siano capaci di ferire ed essere ferite durante un combattimento. A conferma di ciò una delle intervistate, dello studio condotto, racconta di come, tornando a lavoro dopo un incontro, dovette affrettarsi a spiegare che le ferite sul suo corpo non erano dovute ad un’aggressione, ma frutto di una gara appena disputata (Mierzwinski et al., 2014).
  • La sessualizzazione del corpo (sexual bodies – corpi sessuati): questa dimensione si evidenzia in relazione ad alcune tecniche tipiche delle arti marziali, in gergo definite tecniche di grappling, le quali prevedono uno stretto contatto tra le persone. Anche in questo contesto sportivo, infatti, queste vengono interpretate come un’attività sessuale soprattutto quando a mettere in atto tali azioni sono due donne o un uomo e una donna (Mierzwinski et al., 2014).
  • Il fatto che un corpo possa mettere in atto comportamenti violenti (violent bodies – corpi violenti): l’idea che una donna sia intenzionalmente capace di ferire un’altra persona contravviene all’ideale di un corpo femminile “civilizzato” e ciò fa sì che il combattimento sia considerato più disdicevole per una donna che per un uomo (Mierzwinski et al., 2014).

Conclusioni

In conclusione, gli studi presentati sull’embodied cognition ricordano come le funzioni mentali (es. memoria, attenzione, ecc..) non siano astrazioni teoriche, ma sono anzi fortemente connesse con quanto avviene nel mondo esterno e, d’altra parte, è il corpo ad esprimere i vissuti interiori di ciascuno. Mente, corpo ed ambiente esterno sono, secondo questa teoria, un “tutt’uno” cooperativo. Le esperienze vissute influenzano il modo in cui ognuno si pone con l’ambiente stesso e modellano la risposta agli stimoli da esso provenienti, ma non solo questo: anche il genere di appartenenza, a quanto pare, influenza la qualità e quantità di esperienze.

Stando però a quanto precisato da Secondo Castelnuovo & Guthrie (1998), la rappresentazione del corpo femminile, come debole e inferiore rispetto all’uomo, non è immutabile. Davis (1997) propone che la variazione nella rappresentazione del corpo femminile può variare nel momento in cui le stesse mettono in atto comportamenti che sfidano la visione stereotipica del genere cui appartengono.

Gli studi presentati all’interno di questo articolo non sono tanto volti ad indagare la disparità di genere in ambiti sportivi prettamente maschili, quanto ad un approfondimento della Gendered Embodiment Theory, utile a valutare l’espressione, nel genere maschile, di quelle emozioni da Thing (2001) definite “soft”.

In base alla teoria appena citata, la qualità e quantità di esperienze che gli individui vivono sono fortemente, sebbene mai in modo deterministico, influenzate dal genere di appartenenza. Se determinate tecniche di combattimento (es. grappling) vengono percepite come atti sessuali e non come un effettivo esercizio della forza e dell’aggressività allora risulta possibile che non vengano messe in atto in caso di reale aggressione, andando a creare una situazione di disempowerment nella donna. Tale percezione è dovuta, secondo Mierzwinski et al. (2014), al processo di sessualizzazione dei corpi e delle azioni messe in atto.

Bibliografia

  1. Castelnuovo S. & Guthrie S.R. (1998). “Feminism and the Female Body”. L. Rienne Publishers.
  2. Mierzwinski, M. et al. (2014), “Women’s Experiences in the Mixed Martial Arts: A Quest for Excitement?”. Sociology of Sport Journal (31). (pp 66-84). http://dx.doi.org/10.1123/ssj.2013-0125.
  3. Wilson, M. (2002), Six views of embodied cognition. In “Psychonomic Bullettin & Review”, 9(4) (pp 625-636)
  4. West, C. & Zimmerman, D. (1987). “Doing Gender”. Gender & Society. https://doi.org/10.1177/0891243287001002002
  5. Ballard, D.H. et al. (1997), “Memory Representations in Natural Tasks”. Journal of Cognitive Neuroscience 7 (1) (pp 66-80).
  6. Roth A. & Basow S. A. (2004), Feminity, sports and feminism: “Developing a Theory of Physical Liberation”. Journal of Sport & Social Issue, 28 (3) (pp 245-265). doi:10.1177/0193723504266990.
  7. Hargreaves, J. (1997). “Women’s boxing and related activities: Introducing images and meanings”. Body & Society, 3(4), 33–49. doi:10.1177/1357034.
  8. Mansfield, L. (2002). “Feminist and Figurational Sociology”. In J. Maguire & K. Young (Eds.), Research in the Sociology of Sport: Theory, Sport and Society (pp 317–335). London: Reed Elsevier Science.