Groupthink: i rischi del pensiero di gruppo

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Capita spesso, soprattutto all’interno di organizzazioni o istituzioni molto ampie e altamente gerarchizzate, di assistere ad un elevato livello di conformità nelle opinioni e nei comportamenti dei singoli componenti di un gruppo, come se ragionassero e agissero sulla base di un unico pensiero condiviso: questo fenomeno, oggetto di studi da parte della psicologia sociale sin dagli anni ‘50 del secolo scorso, prende il nome di “groupthink”.

Cos’è il Groupthink

Il termine Groupthink è stato coniato nel 1952 dall’urbanista e sociologo americano William H. Whyte per indicare la tendenza dei membri di un gruppo a sviluppare un sistema di “pensiero condiviso”, mirato a minimizzare i conflitti e raggiungere rapidamente il consenso. 

Come spiegato dal sociologo, però, questo modo di pensare comporta inevitabilmente un sacrificio della creatività, dell’originalità e della capacità di ragionamento e valutazione critica dei singoli. Il Groupthink, infatti, provoca nei membri del gruppo che nutrono dubbi o obiezioni una spinta al conformismo e al “silenzio”.

Le motivazioni dietro a comportamenti e fenomeni di groupthink possono essere diverse: in primo luogo, c’è sicuramente il desiderio di evitare il conflitto e mantenere l’armonia all’interno del gruppo, così da proteggere l’identità sociale condivisa da tutti i componenti. In secondo luogo, può trattarsi, invece, di un timore del giudizio degli altri, di essere considerati incompetenti, incoerenti, “bastian contrari” o ingenui. Infine, può capitare che l’opinione del gruppo si formi da sé, a causa dell’influenza di un superiore o di un membro del gruppo considerato particolarmente autorevole e competente: in quest’ultimo caso, anche se l’idea proposta sarebbe, di fatto, la meno gettonata, finisce per essere percepita come la più popolare e, di conseguenza, per essere adottata. 

Il risultato del groupthink è, in molte situazioni, un fallimento. Poiché vengono meno razionalità, obiettività e spirito critico, infatti, le decisioni che vengono prese risultano poco informate e raramente efficaci, con esiti anche disastrosi.

I “sintomi” del Groupthink

Negli anni ‘70, il concetto del Groupthink fu portato nuovamente all’attenzione della comunità scientifica grazie agli studi dello psicologo statunitense Irving Janis, che ne diede una definizione più completa e individuò otto indicatori solitamente presenti in fenomeni di Groupthink. 

Nella definizione di Janis, queste situazioni sintomatiche possono essere ricondotte a tre tipologie: la sovrastima del gruppo, la chiusura mentale (rispetto alle deviazioni o alle alternative) e la pressione verso l’uniformità.

Sovrastima del gruppo, del suo potere, della sua moralità

1. Illusione di invulnerabilità: i membri del gruppo si percepiscono come “superiori” e mostrano un eccessivo ottimismo rispetto alle proprie reali capacità, competenze e possibilità.

2. Moralità indiscussa: la moralità del gruppo è vista come assodata e, in virtù di essa, i membri del gruppo sono portati a ignorare o non considerare le conseguenze delle proprie azioni.

Chiusura mentale

3. Ammonimenti razionalizzanti che possano mettere in discussione gli assunti del gruppo.

4. Applicazione dello stereotipo di debole, sleale, portatore di pregiudizi o stupido per chi si oppone al gruppo.

Pressione verso l’uniformità

5. Autocensura delle idee che deviano dall’apparente consensualità del gruppo.

6. Illusione di unanimità tra i membri del gruppo, in cui il silenzio è erroneamente percepito come assenso.

7. Pressione diretta al conformismo, esercitata su qualsiasi membro che metta in discussione il gruppo.

8. Presenza di Mindguards (guardie/guardiani della mente): figure che, consciamente o inconsciamente, filtrano e schermano il flusso di informazioni per proteggere il gruppo da opinioni dissenzienti.

Come difendersi dal Groupthink

Lo psicologo Irving Janis individua e illustra sette strategie utili per prevenire o contrastare gli effetti negativi del groupthink, che coinvolgono rispettivamente il livello del team leader, quello del gruppo nel suo insieme e quello dell’organizzazione di riferimento.

  • Leader
  1. I leader incoraggiano ciascun membro del gruppo ad assumere il ruolo di “valutatore critico” ed esprimere liberamente eventuali obiezioni e dubbi.
  2. I leader (o i membri del gruppo più alti in grado) si astengono dall’esprimere giudizi quando assegnano un compito a un gruppo. La delega del task è, per quanto possibile, effettiva e completa.
  • Team
  1. I membri del team discutono delle idee proposte dal gruppo con persone di fiducia al di fuori del gruppo.
  2. Il gruppo invita esperti esterni a prendere parte agli incontri.
  3. Almeno un membro del gruppo ricopre ufficialmente il ruolo di “avvocato del diavolo”.
  • Organizzazione
  1. L’organizzazione crea più gruppi indipendenti per lavorare sullo stesso problema.
  2. L’organizzazione prende in considerazione e valuta tutte le soluzioni proposte.

Un esempio pratico dell’efficacia di queste strategie può essere riscontrato nella gestione della delicata crisi dei missili di Cuba da parte del presidente statunitense John F. Kennedy, dopo il fallimento dello sbarco nella Baia dei Porci (considerato da molti, invece, come un esempio emblematico degli effetti più gravi e pericolosi del groupthink).
Per prevenire l’emergere di un pensiero di gruppo unico, Kennedy costituì dei sotto-gruppi, al fine di dissolvere parzialmente la coesione del team di lavoro, invitò esperti esterni ad esprimere il proprio punto di vista e incoraggiò i membri del gruppo a valutare le possibili soluzioni anche in privato, con membri di fiducia dei rispettivi dipartimenti. Inoltre, consapevole dell’influenza che la sua presenza o la sua opinione avrebbe potuto avere sui componenti del gruppo, spesso si allontanava dai meeting allo scopo di evitare condizionamenti nella discussione e nella formazione dei giudizi individuali.