I molteplici volti del disturbo d’ansia sociale

A cura di: Alessia Giorgi

INTRODUZIONE

Il contesto attuale è andato incontro a cambiamenti radicali nel corso degli anni: la società odierna richiede un dispendio di energie notevoli per poter stare al passo e rispondere adeguatamente al clima di competitività instauratosi. Condotte e ruoli sono inoltre meno definiti e ciò comporta la nascita di microconflitti personali, affettivi, lavorativi (Natoli e Allegrucci, 2004). In Italia 5 milioni di persone soffrono di ansia, spesso vissuta in silenzio e con ripercussioni su mente e corpo. Ci troviamo nell’era dell’ansia, della prestazione efficiente a tutti i costi, del consumismo sfrenato, dei ritmi serrati, di relazioni umane sempre più veloci e centrate principalmente sul presente, in una società individualizzata, vulnerabile, incerta: una “modernità liquida” (Bauman, 2011).

L’individuo è sempre più connesso e sempre più solo. All’incapacità di stabilire relazioni profonde e durature, si associa l’attività persistente sui social network percepiti come modalità di comunicazione che elimina le barriere comunicative: timidezza, imbarazzo, paura del giudizio e del rifiuto.

In tutto ciò, trova spazio per consolidarsi un tipo di ansia che trova ripercussioni nella vita sociale.

Il DSM-V definisce il disturbo d’ansia sociale (DAS) come: “paura o ansia persistenti relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri, come essere osservati o eseguire prestazioni di fronte ad altri”.

Si tratta di un disturbo piuttosto invalidante, i cui limiti più evidenti consistono nel disadattamento sociale e nell’evitamento radicale delle situazioni stimolo potenzialmente ansiogene per l’individuo, come ad esempio parlare in pubblico, mangiare in compagnia, rivolgere la parola ad uno sconosciuto, firmare un documento davanti ad un’altra persona. Progressivamente, si può sperimentare un vero e proprio isolamento sociale causato dall’evitamento.

I sintomi che accompagnano questo tipo di disturbo, sono quelli che caratterizzano i più comuni stati ansiosi: affanno, tachicardia, tremori, sudorazione accentuata, fino a vere e proprie crisi di panico.

1. COMPRENDERE L’ANSIA SOCIALE

Il DAS è considerato il più comune disturbo d’ansia, il cui focus risiede dunque nel timore di essere giudicati negativamente dagli altri, in una spirale di situazioni di evitamento, imbarazzo, vergogna, paura che obbligano chi ne soffre a vivere un intenso stato di disagio.

Secondo il DSM-V, affinché si possa diagnosticare questo disturbo, è necessario rispondere ad alcuni criteri, come ad esempio:

  • Paura marcata o ansia in una o più situazioni sociali in cui la persona è esposta al possibile giudizio degli altri;
  • Timore che l’individuo agendo in un certo modo o mostrando sintomi di ansia verrà valutato negativamente;
  •  Paura o ansia sproporzionate rispetto al reale pericolo delle situazioni a cui si è sottoposti;
  • Ansia, paura ed evitamento causano un disagio notevole che compromette aree significative della vita;
  • La durata dei sintomi è di almeno sei mesi.

Le caratteristiche di personalità di chi soffre di ansia sociale spaziano dalla mancanza di assertività, scarsa considerazione delle proprie risorse personali, alto tasso di competitività, automonitoraggio eccessivo del proprio flusso di pensieri ed emozioni (P. Grimaldi, 2019). Ciò che accomuna il DAS con gli altri disturbi d’ansia è proprio l’eccessivo controllo, in questo caso su sé stessi e sulle circostanze ambientali e sociali a cui si è sottoposti, nello strenuo tentativo di renderle anche solo percettivamente più accessibili alla propria sfera cognitiva ed emotiva, evitando la sofferenza che ne deriva. Si instaura in questo modo un dialogo interno negativo che alimenta in un circolo vizioso le distorsioni cognitive, le aspettative errate che il soggetto attribuisce a sé stesso, agli altri, alla realtà.

Non a caso le teorie cognitive sono quelle che nel corso degli anni hanno spiegato meglio le dinamiche dell’ansia sociale. Hofmann (2007) ad esempio sostiene che l’ansia sociale inizia con la percezione di standard troppo alti, impossibili da raggiungere. Il soggetto tende ad autosabotarsi fallendo volutamente e avallando in tal modo l’idea di scarsità di risorse personali per affrontare la situazione sociale in essere. In tal modo le aspettative altrui si abbassano, mentre si consolida una falsa percezione di sé stessi, non solo caratterizzata dalla difficoltà ad agire adeguatamente, ma anche da un basso controllo delle emozioni. Gli individui con DAS temono l’ansia e le sue ripercussioni sotto gli occhi di tutti.

1.1 FATTORI DI MANTENIMENTO CHE ACCOMPAGNANO IL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE

L’ansia sociale è determinata da diversi fattori di mantenimento come ad esempio il temperamento del soggetto. Individui timidi, con una predisposizione all’ansia e una certa familiarità hanno più probabilità di sviluppare il DAS, così come lo stile di attaccamento instaurato con le figure accudenti di riferimento durante l’infanzia gioca un ruolo molto importante nello sviluppo eziologico di questo disturbo.

Lo psicologo e psicoanalista britannico Bowlby ha teorizzato che le esperienze d’interazione con le figure di attaccamento durante il primo anno di vita, dà luogo alla strutturazione di Modelli Operativi Interni rappresentativi di sé stesso e dell’altro, che regolano l’espressione e la tipologia delle relazioni future (J. Bowlby, 1982). Successivamente M. Ainsworth, osservando l’interazione tra madre e bambino e come la prima risponde e soddisfa i bisogni del secondo, ha indagato le differenze individuali nell’attaccamento approdando a quattro stili fondamentali: sicuro, ansioso-evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato.

Da tali studi risulta che i bambini che hanno instaurato con la figura di attaccamento una relazione sicura hanno meno probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia in futuro, rispetto a chi rientra nel pattern di attaccamento insicuro o ansioso. Questi ultimi considereranno gli altri come inaffidabili, quindi tendenzialmente vivranno i rapporti interpersonali con ansia e tenteranno di evitarli il più possibile. Grimaldi (2008) parla di un altro percepito come ostile e critico. Soggiacente a questo comportamento è la paura di essere abbandonati e rifiutati. In questo caso l’evitamento rappresenta un fattore di mantenimento dell’ansia sociale che permeerà le relazioni di chi ne soffre. Sempre in Grimaldi (2008) si trovano i risultati dello studio di Hudson e Rapee (2000), i quali affermano che avere genitori caratterizzati da ipergenitorialità, ossia la tendenza a controllo e protezione eccessivi, è un fattore di rischio per l’insorgere di ansia sociale nel corso dello sviluppo, poiché impedirebbero l’esplorazione dell’ambiente alla ricerca di nuove opportunità che andrebbero a consolidare le abilità sociali.

1.2 EMOZIONI E REGOLAZIONE EMOTIVA

Generalmente chi sperimenta ansia sociale avverte a livello emotivo sentimenti quali l’imbarazzo, la rabbia, il timore di essere giudicato negativamente anche a livello estetico, la paura del rifiuto, la vergogna, ma anche la metavergogna, ossia la “vergogna della propria vergogna” che amplifica ulteriormente l’emozione stessa. Frequente è anche il rimuginio ansioso, un tipo di pensiero ossessivo e ripetitivo, risultato della concatenazione di più pensieri negativi, tendenzialmente adattivi e regolatori in quanto orientati alla risoluzione di un problema, ma disfunzionali per chi li sperimenta, perché compulsivi, incontrollabili e non soluzionatori. Un vero e proprio dialogo interno ricorsivo e negativo che mina il benessere psicologico ed emotivo.

Una ricerca di A. Contardi et al. (2013) ha osservato la relazione tra ansia sociale e difficoltà nella regolazione emotiva in un campione di giovani adulti italiani, di età compresa tra i 18 e i 34 anni.

I risultati ottenuti hanno evidenziato il legame tra una gestione inefficace delle proprie emozioni e l’insorgenza di quadri sintomatologici ansiosi o depressivi. I soggetti con elevata ansia sociale sono stati quelli che hanno ottenuto punteggi più elevati nelle dimensioni: disagio personale, non accettazione delle emozioni negative e mancata chiarezza nella definizione delle emozioni. Queste tre dimensioni sembra si rafforzino a vicenda, alimentando non solo il timore del giudizio altrui ma anche le aspettative di risposta empatica da parte degli altri, il che condurrebbe ad una iper-reattività accompagnata dalla consapevolezza di avere limiti nella regolazione efficace delle proprie emozioni.

1.3 IL RITIRO SOCIALE IN ADOLESCENZA E TRA I GIOVANI ADULTI: DAL RIFIUTO DI CRESCERE ALLA SINDROME DI HIKIKOMORI

La spinta evolutiva che avviene nel periodo adolescenziale, seppur costellata di profonde trasformazioni sia fisiche che psicologiche, si auspica possa compiersi in maniera armoniosa e desiderosa da parte dei soggetti coinvolti; ma non è raro che possa accadere il contrario: adolescenti angosciati dal proprio Sé fragile e narcisistico non tollerano il loro debutto in una nuova fase della vita e decidono di ritirarsi parzialmente o completamente dalla scuola, dalle relazioni amicali, dal confronto con l’esterno, dallo sguardo altrui ritenuto giudicante, mortificati dalla vergogna e dall’imbarazzo. Si rifugiano in un proprio mondo per tollerare meglio l’ansia sociale che li attanaglia. Giovani che si ritirano nella proprie stanza e possono sviluppare fobia sociale, mantenendo un flebile rapporto con l’esterno attraverso l’uso di Internet, smartphone e social network, strumenti che occupano la maggior parte delle loro giornate e costituiscono tuttavia un fattore di protezione contro un possibile esordio psicotico.

M. Spitzer (2017) sostiene che i social network aiutino le persone più timide ed introverse a costruire un ponte verso gli altri in quanto le relazioni instaurate in rete sono meno intense di quelle reali, in cui sussiste la corporeità dei soggetti coinvolti; ma è anche possibile che siano i social stessi ad accentuare l’ansia sociale in tutti quei soggetti che già ne sono colpiti, sottolineando come tali modalità interattive costituiscano un’ “arma a doppio taglio” che compromette lo sviluppo di competenze empatiche. Infatti più si accentua la solitudine digitale e più l’intelligenza emotiva subisce un arresto, gli altri vengono percepiti come minacciosi e fonte d’insicurezza, per cui si medita il ritiro volontario per fare fronte all’ansia sociale che incombe.

Una forma estrema di ritiro sociale volontario in adolescenza è la sindrome di Hikikomori, che vede la sua nascita in Paesi industrializzati come il Giappone, dove le richieste sociali e formative sono molto alte, ma che si è diffusa anche in Europa. Hikikomori significa “stare in disparte, isolarsi”. Come descrivono F. Andorno e M. Lancini (2019), l’autoreclusione avviene dapprima con l’abbandono della scuola o del lavoro, poi delle relazioni sociali. L’esordio avviene intorno ai 14 anni di età in soggetti prevalentemente di sesso maschile, e può prolungarsi fino all’età adulta, questo a sottolineare la pervasività della sindrome. I soggetti coinvolti trascorrono le giornate all’interno della propria stanza in isolamento e al riparo da contatti esterni. Il ciclo circadiano viene invertito: si resta svegli di notte e si dorme di giorno; Internet rappresenta l’unica forma di contatto con il mondo, e la preferenza per i Manga rispecchia la tendenza a rifugiarsi in un mondo immaginario, non riconoscendosi nelle trame sociali e sperimentando un senso di inutilità e di pessimismo verso il futuro.

 All’inizio del nuovo millennio, anche l’Italia ha iniziato a registrare i primi casi di ritiro sociale estremo, le cui cause, come sostiene Ricci (2015) vanno ricercate nella fobia scolare, spesso scatenata dall’aver subito episodi di bullismo, nell’ipergenitorialità, nel narcisismo, nel rapporto simbiotico con la madre, e in aspetti contestuali che accentuano il disagio come il disorientamento, l’incertezza, l’insicurezza. La sofferenza dei ragazzi risiede nell’affrontare il crollo dell’Ideale dell’Io nel passaggio adolescenziale (F. Andorno, M. Lancini, 2019).

M. Crepaldi (2019) sostiene che è riduttivo, anche se non del tutto scorretto, considerare la sindrome di Hikikomori come un tipo di fobia sociale in quanto chi ne fa parte sceglie consapevolmente la reclusione, come frutto di una decisione radicata e maturata col tempo. Questi soggetti infatti si sentono estranei ad una società che criticano aspramente, rifiutandone anche gli aspetti relazionali. Faticano a trovare elementi di condivisione con i coetanei da cui si sentono distaccati e questo li espone spesso a diventare vittime di episodi di bullismo, alimentando gradualmente la loro pulsione all’isolamento.

Nelle situazioni di ritiro sociale, lo sguardo altrui è intollerabile e da rifuggire ad ogni costo, poiché funge da specchio per gli aspetti di sé rifiutati. Per questo si avvia un processo regressivo della propria personalità, si fatica a compiere il processo di separazione-individuazione dalla famiglia di origine tipico dell’età adolescenziale e ci si rifugia in un blocco evolutivo importante, prendendo le distanze dallo sviluppo del Sé e proteggendosi dall’Altro da sé, soprattutto dall’ambiente scolastico in quanto luogo di elezione delle dinamiche relazionali ed evolutive percepite come fallimentari.

2. IL TRATTAMENTO DELL’ANSIA SOCIALE

La terapia d’elezione per il DAS è la terapia cognitivo comportamentale, che nel corso del tempo si è arricchita di integrazioni provenienti dalla ricerca sul ruolo dell’autocritica nello sviluppo e mantenimento dei disturbi ansiosi, ma anche di varie manifestazioni psicopatologiche: la Compassion Focused Therapy, o terapia focalizzata sulla compassione, ha come obiettivo lo sviluppo di un atteggiamento compassionevole verso sé stessi e gli altri al fine di fronteggiare situazioni potenzialmente ansiogene (P. Gilbert, 2019). Infine, altrettanto valide ai fini terapeutici si sono rivelate le tecniche di rilassamento e visualizzazione, come il training autogeno ideato da J. Schultz.

2.1 LA TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE (CBT)

  • Ideata negli anni 60 da A. Beck e A. Ellis;
  • Obiettivo: ridurre il legame tra stimoli ansiogeni e percezione dell’ansia;
  • Protocollo di trattamento: ad una prima fase di raccolta dei dati anamnestici del paziente, si passa ad un suo coinvolgimento attivo che prevede la somministrazione da parte del terapeuta di specifici homework, consistenti nell’annotazione delle esperienze e delle emozioni sopraggiunte di fronte alle circostanze temute. Tali esperienze verranno poi trascritte in una scheda chiamata ABC (pensiero-evento-emozione). Fase centrale del trattamento è la ristrutturazione cognitiva, in cui i pensieri automatici verranno poi sostituiti da quelli più funzionali, e l’esposizione in vivo, o desensibilizzazione sistematica, momento in cui il paziente gradualmente si sottoporrà alla situazione temuta in prima persona oppure nel setting terapeutico, tramite il role play. Obiettivo è far decrescere l’ansia man mano che la si affronta.

2.2 LA COMPASSION FOCUSED THERAPY (CFT)

  • Ideata da Paul Gilbert nel 2005;
  • Obiettivo: sviluppare nel paziente sentimenti di compassione verso sé stesso e gli altri, affrontando la realtà con un atteggiamento non giudicante. Nei suoi studi Gilbert ha osservato che l’autocritica e la vergogna sono fattori di mantenimento nei pazienti con disturbi di natura ansiosa. Proprio per questo tali pazienti sono resistenti al cambiamento tramite la classica ristrutturazione cognitiva, in quanto formulano un pensiero alternativo e valido ma di fatto non riescono a “sentire” e a mettere in pratica quanto appreso;
  • Il protocollo di trattamento si basa sul riequilibrio dei tre sistemi di regolazione emotiva: sistema della minaccia, della ricerca di stimoli e dell’appagamento. Centrale è anche l’introduzione al sé compassionevole e tollerante, utile a gestire l’autocritica, e di tecniche facenti parte della mindfulness, in cui il paziente si pone come osservatore diretto e gentile del flusso di eventi e di emozioni nel qui ed ora, sospendendo il giudizio.

Ad integrare questi protocolli d’intervento, per placare l’ansia sociale si può intervenire con il training autogeno, tecnica di rilassamento basata sul concetto di ideoplasia, ossia la capacità della mente opportunamente orientata di poter apportare benefici a livello fisiologico.

  • Ideato da Schultz nel 1932;
  • si compone di sei esercizi per condurre ad un autorilassamento indotto: esercizio della pesantezza, del calore, del cuore, del respiro, del plesso solare, della fonte fresca. Ogni esercizio prevede la ripetizione di formule mentali in grado di guidare verso il rilassamento progressivo, in uno stato di flusso spontaneo delle percezioni corporee che ne derivano;
  • Obiettivo: sviluppare un’ efficiente regolazione emotiva, a partire dall’osservazione delle proprie sensazioni interne e indurre al rilassamento.

CONCLUSIONI

Tra le varie sfaccettature dell’ansia, sicuramente la fobia sociale è particolarmente invalidante per chi ne soffre, in quanto comporta un intenso disagio vissuto in maniera piuttosto percettibile. Le cause possono essere molteplici, così come i fattori di mantenimento che si sviluppano nel corso della vita ed evidenziano il focus del disturbo nella convinzione di essere oggetto di giudizio negativo da parte degli altri. Lo sguardo altrui, percepito sempre come negativo, funge da specchio verso la valutazione critica di sé stessi e la paura di esporsi comporta la fuga e l’evitamento dalle situazioni stimolo, fino a giungere in alcuni casi ad un doloroso ritiro sociale soprattutto tra gli adolescenti, ma anche tra la popolazione adulta.

Fondamentale risulta quindi un aiuto professionale per impostare un intervento che, grazie a protocolli consolidati nel tempo e all’integrazione con approcci più recenti, opportunamente calati nel contesto specifico (caso, target…) ed integrati con tecniche di rilassamento e visualizzazione, restituiscano a chi ne soffre una qualità della vita migliore, abbassando le conseguenze dei fattori di rischio ed innalzando quelli di protezione. Esperire l’indulgenza verso sé stessi, come la Compassion Focused Therapy insegna, abbassa il livello di autocritica e di vergogna, due fattori altamente limitanti e restrittivi che comportano resistenze al cambiamento positivo.

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