Il gioco in età evolutiva: strumento di espressione, conoscenza e cambiamento

A cura di: Debora Pannozzo

Giocare è una cosa seria! Processo attivo e spontaneo, il gioco viene definito da Maria Montessori come “il lavoro del bambino”: è giocando che il bambino sviluppa le sue potenzialità fisiche ed intellettive.

Piaget ha inquadrato il gioco nel suo duplice valore: come “finestra” sullo sviluppo, in quanto influenzato da processi evolutivi e come “strumento”, dal momento in cui non solo riflette lo sviluppo ma vi contribuisce attivamente.

Le caratteristiche del gioco si evolvono nel corso dello sviluppo, andando di pari passo con lo sviluppo cognitivo del bambino. Si passa dal gioco sensoriale, al gioco funzionale per giungere al gioco simbolico. Il livello più evoluto di gioco è il gioco con regole.

Principale intermezzo tra sé e l’ambiente, è tramite l’esplorazione ludica che il bambino acquisisce informazioni, in primis su se stesso, e quindi sul mondo, giungendo a distinguere tra il Sé e il Non Sé.

Attività privilegiata dai bambini, il gioco rappresenta il mezzo comunicativo privilegiato per portare all’esterno emozioni, pensieri, paure, preoccupazioni, angosce. In ambito clinico, di fatti, è attraverso il gioco che il terapeuta si avvicina, gradualmente, al mondo interiore del minore, costruendo, dapprima un rapporto di fiducia, per poter, quindi, acquisire informazioni circa le aree dolorose e costruire un piano di intervento. Ciò che diventa impossibile da tradurre in parole, in quanto troppo doloroso, inaccessibile al piano semantico, viene facilmente riprodotto in forma ludica. Il gioco è, allora, anche lo strumento principale di trattamento in ambito evolutivo: si parla di Play Therapy.

Durante il gioco il Play Therapist, incoraggiando il gioco spontaneo, completo e rappresentativo del mondo interno del bambino, favorisce l’espressione e la comprensione dei contenuti interni, ottenendo preziose informazioni circa le strategie di coping e problem solving, e l’esplorazione, ovvero la ricerca di nuove e più creative soluzioni ai problemi, promuovendo l’autonomia e l’autoefficacia.

Introduzione

Il presente articolo intende approfondire la tematica del gioco, fornendo al lettore una visione dettagliata e aggiornata, alla luce dei più recenti contributi scientifici, del principale strumento conoscitivo ed espressivo utilizzato dal bambino (Baumgartner, 2023).

Esplorando le diverse fasi evolutive del gioco, si passeranno in rassegna le caratteristiche del gioco sensoriale, del gioco funzionale, del gioco simbolico e del gioco con regole.

Infine, verrà analizzato l’utilizzo del gioco in ambito clinico, sia in fase di assessment diagnostico, che nella fase propriamente terapeutica (Salcuni, Mazzeschi, Capella, 2017), delineando le caratteristiche della Play Therapy.

1. Il gioco come espressione di sé

Oltre che attività ludica, il gioco può avere diverse funzioni, contribuendo allo sviluppo delle competenze motorie, propriocettive e sociali dell’infante (Yogman, Garner, Hutchinson, Hirsh-Pasek, Golinkoff, 2018).

Processo attivo e spontaneo in cui confluiscono pensieri, emozioni e azioni, rappresenta la principale attività del soggetto in età evolutiva, al punto da poter essere considerato “il lavoro dei bambini” (Montessori, 1999).

Assolvendo allo sviluppo cognitivo, sociale, emotivo, creativo e motorio del bambino, il gioco compare come uno dei Diritti fondamentali, sanciti dalla Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza nel 1989 all’articolo 31.

Il gioco è il modo naturale con cui il bambino si esprime e rappresenta un aspetto fondamentale della sua vita, è una risorsa con un valore inestimabile per la crescita ed è stato associato con le funzioni adattive dell’infante (Russ, 2004).

Per suo mezzo il bambino accorcia la distanza tra realtà e desiderio, attraverso l’immaginazione, così come assimila nuove informazioni, che vengono integrate a schemi già acquisiti.

2. Diversi tipi di gioco

Lo sviluppo ludico segue le tappe dello sviluppo cognitivo, pertanto risulta possibile discriminare diversi tipi di gioco: sensoriale, funzionale, simbolico, con regole.

A partire dall’esplorazione del proprio corpo, con il sopraggiungere delle abilità di spostamento pre- locomotorie, intorno ai 6 mesi di età, il bambino inizia a manipolare attivamente l’ambiente circostante, mostrando un interesse sempre maggiore per gli oggetti, che vengono battuti a terra, lanciati, portati alla bocca. In questa fase, utilizzando i cinque sensi, l’infante vede, annusa, ascolta, tocca e assapora gli oggetti: il proprio corpo rappresenta lo strumento principale attraverso cui de- codificare l’altro da sé e proprio come uno scienziato, con atteggiamento attento e curioso, esamina scrupolosamente l’indiziato in questione, specie se si tratta di un oggetto nuovo.

Con la condivisione dell’attenzione, a partire dai 9-10 mesi, l’oggetto esterno fa da tramite nelle relazioni con il caregiver.

Con gioco funzionale si intende l’insieme delle attività ludiche volte a realizzare un qualcosa, nello specifico ad emulare “la funzione” di specifici oggetti.

Gioco funzionale e sviluppo motorio sono strettamente connessi e vicendevolmente influenzabili: affinando la coordinazione, l’attenzione e l’equilibrio, il bambino diviene in grado di muoversi in maniera più controllata, agendo a livello di motricità fine.

Cresce la curiosità per la funzione sociale degli oggetti, che viene emulata nel gioco: pettinare una bambola, bere dal suo bicchiere, guidare una macchinina, parlare ad un telefono giocattolo, sono tutti esempi di gioco funzionale.

Intorno ai 2 anni di età, il bambino acquisisce la capacità rappresentativa e diventa in grado di immaginare delle realtà non tangibili, non presenti nel concreto, ma rappresentabili nella sua mente, utilizzando dei “simboli”. Il gioco simbolico, come sottolinea Berk (1991), inizia quando azioni di routine e oggetti sono distaccati dai loro ruoli tipici e dalle funzioni specifiche, per essere usati in modo atipico, giocoso.

Con la funzione di organizzare il pensiero, in uno stadio in cui il linguaggio non ha ancora raggiunto la sua piena padronanza, il gioco simbolico diventa, per il bambino, lo strumento per contattare la sua sfera affettiva e relazionale, per poter esprimere sentimenti ed emozioni agendoli in forma ludica (Bretherton, 2014; Gleason & White, 2023). Ora il bambino può emulare qualcosa che ha visto in precedenza, e gli oggetti, staccati dalla loro funzione specifica, vengono utilizzati in modo singolare: la ciabatta potrà diventare un telefono, la sedia potrà essere utilizzata come un’automobile…

La finzione permette di conoscere se stessi e la propria emotività, rielaborando esperienze vissute e attribuendogli nuovi significati, imparando a mediare tra la realtà e i desideri, a esprimere le proprie angosce ricercandovi una soluzione. Il gioco simbolico sembra, infatti, ridurre paure, ansia e dolore (Harris, 2000).

A partire dai 7-8 anni, complice la socializzazione tra pari, il bambino inizia ad utilizzare il gioco con regole, superando la visione egocentrica che lo ha accompagnato fino a quel momento, per poter accedere alla competizione, alla negoziazione, alla persuasione e al compromesso, internalizzando

norme e ruoli sociali (Bruder & Chen, 2007). Con la conquista del pensiero reversibile, che presuppone una memoria di lavoro più ampia, ora il bambino può tenere a mente due fasi di un evento, mettendo in relazione un prima e un dopo.

3. Il gioco in ambito clinico

Il modo più naturale per entrare in contatto con un bambino è giocare insieme a lui. Il gioco permette al clinico di potersi avvicinare al bambino con delicatezza, guadagnando la sua fiducia, in modo non invasivo, secondo i tempi dettati dal bambino stesso. Il soggetto in età evolutiva spesso non possiede gli adeguati strumenti linguistici per intrattenere un dialogo accurato e, anche laddove le proprietà linguistiche siano ben sviluppate, i meccanismi di difesa, la non comprensione di quello che sta succedendo, il trovarsi davanti ad un estraneo, il disagio di cui è portatore, impedirebbero al bambino l’esternalizzazione dei propri vissuti.

Nel setting clinico si utilizzano diversi strumenti ludici in fase di assessment diagnostico, quali la casetta con i diversi personaggi, le bambole, i puppets, i libri, in forma semi-strutturata, al fine di dare al bambino la possibilità di costruire o finire una storia. Le risposte date vengono, dunque, interpretate alla luce dei dati normativi e permettono di enucleare le aree critiche su cui stilare il progetto terapeutico. Questo è il lavoro anamnestico che viene fatto con il bambino, a cui vanno integrate le informazioni provenienti dal/dai caregiver/s e, eventualmente, da altre istituzioni educative.

Può accadere che il bambino mostri difficoltà ludiche, che denunciano deficit nella capacità rappresentativa ed in tal caso è necessario un preliminare lavoro, volto ad insegnare esplicitamente tali competenze (Sarah, Parson, Renshaw, Stagnitti, 2021; Stagnitti, 1998).

La Play Therapy è un intervento terapeutico di natura espressiva, fondato sul gioco: quest’ultimo possiede poteri terapeutici intrinseci, determinando un effetto benefico, una diminuzione dei sintomi e un aumento del comportamento desiderato (Schaefer, 1993). Intervenendo nel qui ed ora della relazione il Play Therapist calibra l’intervento sullo specifico paziente: ciò significa che il gioco terapeutico non è né un’azione strutturata a priori né una modalità per distrarre o calmare il bambino, quanto, piuttosto, la modalità ideale per accedere a “parti di sé” del bambino.

Nella Play Therapy i giocattoli sono per i bambini come le parole e il gioco diviene il loro linguaggio (Landreth, 2002).

In Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) il gioco permette al terapeuta l’accesso agli schemi del bambino, alle credenze profonde, strutturate su se stesso e sugli altri e favorisce, allo stesso tempo, una maggiore consapevolezza nel bambino, nonché l’apprendimento di modelli comportamentali maggiormente funzionali, per mezzo del modeling, dove il modello comportamentale da apprendere/ridurre viene modellato dal terapeuta con l’aiuto di puppets, animali a dita, bambole.

La Cognitive Behavioral Play Therapy (CBPT), approccio sviluppato da Susan Knell, utilizza il gioco nell’ottica CBT e si è dimostrato un valido intervento di psicoterapia in età evolutiva, sia nell’affrontare Disturbi emotivi e comportamentali, sia nel fronteggiare momenti di stress (Bratton, Ray, Rhine, Jones, 2005; Geraci, 2022; Knell, 1995). E’ un approccio direttivo, strutturato, in quanto il terapeuta svolge un ruolo attivo nella selezione delle attività, a breve termine e focalizzato sull’obiettivo. Ampiamente utilizzate le tecniche cognitive e comportamenti, quali la psicoeducazione, la ristrutturazione cognitiva, il problem solving, lo shaping, la desensibilizzazione sistematica, l’esposizione.

La relazione positiva che si sviluppa tra il terapeuta e il bambino durante le sessioni di Play Therapy fornisce un’esperienza emotiva correttiva necessaria per risolvere i disturbi del bambino (Moustakas, 1997; Razak, Johari, Mahmud, Zubir, Johan, 2018).

Conclusioni

Il gioco rappresenta il principale canale di espressione del bambino, favorisce l’accesso al suo mondo interiore, configurandosi, pertanto, come privilegiato strumento di relazione.

Esso permette di ripensare ad alcune situazioni e riflettere su nuove modalità per affrontarle, aumentando il proprio senso di autoefficacia.

Riattualizzare nel “qui ed ora” le esperienze incontrate nel “là e allora”, permette di dare concretezza a quello che accade e rende familiari situazioni difficilmente comprensibili.

Nel gioco il bambino riporta le proprie fantasie, paure, preoccupazioni, esperienze di vita piacevoli, o, al contrario, traumatiche: sentimenti e pensieri spaventosi, disturbanti, conflittuali, confusivi, possono essere proiettati senza rischi, attraverso la scelta spontanea dei giocattoli.

L’uomo è l’unico essere vivente ad intrattenersi in giochi di finzione e simbolici, attività che promuovono competenze empatiche, creatività, interiorizzazione di norme morali: allora più che di Homo Sapiens, potremmo parlare, a pieno diritto di Homo Ludens!

Riferimenti bibliografici

  1. Baumgartner, E. (2023). Il gioco dei bambini. Roma: Carocci Editore.
  2. Berk, L. E. (1991). Child Development. Boston: Allyn & Bacon.
  3. Bratton, S., Ray, D., Rhine, T., Jones, L. (2005). The efficacy of play therapy with children: A meta-analytic review of the outcome research. Professional Psychology: Research and Practice, 36(4), 376-390.
  4. Bretherton, I. (2014). Symbolic play: The development of social understanding. Academic Press.
  5. Bruder, M. B., Chen, L. (2007). Measuring social competence in toddlers: Play tools for learning. Early Childhood Services, 1(1), 49–70.
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  15. Salcuni, S., Mazzeschi, C., Capella, C. (2017). Editorial: The Role of Play in Child Assessment and Intervention. Front Psychol, 8: 1098.
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