Leadership e intelligenza emotiva: quando le emozioni del leader influenzano il rendimento dei collaboratori

A cura di: Sara Ferracci

INTRODUZIONE

All’interno di contesti organizzativi ed aziendali si sente spesso parlare del concetto di leadership come tratto indispensabile di colui che gestisce e guida un team di collaboratori in ambito lavorativo. Compito di un leader è infatti, principalmente, quello di saper ispirare e guidare un determinato gruppo di persone, in modo tale da canalizzare al meglio le capacità di ognuno a favore del proprio business. Diversi studi che si sono occupati di leadership hanno analizzato, nel corso del tempo, quali potrebbero essere le tecniche migliori di cui servirsi affinché un leader possa gestire al meglio i propri dipendenti. In particolare, in un testo del 1995, Daniel Goleman riprende il concetto di intelligenza emotiva, già introdotto nel 1990 dai professori Peter Salovey e John D. Mayer nel loro articolo “Emotional Intelligence”, e lo accosta per la prima volta, ma in un breve capitolo, alle implicazioni che questa potrebbe avere in ambito lavorativo.

Nel 1998, tuttavia, l’autore deciderà di approfondire e sviscerare la tematica in un libro dal titolo “Lavorare con l’intelligenza emotiva. Come inventare un nuovo rapporto con il lavoro”, sottolineando come le emozioni espresse dal leader, tramite gesti o parole, dovrebbero esser prese in forte considerazione, dato che queste potrebbero veicolare sia contenuti positivi che negativi per il team di collaboratori che vi presta grande attenzione. Sebbene infatti tali gesti e tali parole siano spesso inconsapevoli e dettati appunto dalla specifica emozione del momento, un dipendente tenderà in realtà a cogliere questi segnali e ad esserne inevitabilmente influenzato.

1. Intelligenza Emotiva: una definizione

L’intelligenza emotiva si definisce come la capacità di riconoscere, identificare e, successivamente, etichettare le emozioni, riuscendo di conseguenza a gestirle sia in se stessi che negli altri. Secondo il modello di Goleman, tale capacità può essere incanalata al fine di raggiungere determinati obiettivi e dovrebbe essere dunque ritenuta fondamentale per la leadership, perché utile appunto sia a dominare sé stessi, sia ad acquisire un’elevata destrezza sociale.

Essere dotati di intelligenza emotiva non significa infatti mettere in mostra i propri sentimenti senza alcun tipo di filtro, esporli in modo grezzo e guidati dall’impeto del momento, ma vuol dire piuttosto controllarli, così da esprimerli in modo appropriato e costruttivo, consentendo in tal modo una collaborazione serena ed efficace (Freedman, 2009).

Si immagini a tal proposito che il leader sia colto da rabbia nel corso di un meeting con i propri collaboratori. Esprimere tale rabbia in modo incontrollato vorrebbe dire svilire ed affliggere i membri del proprio stesso team, causando un possibile calo del rendimento ed ostacolando una buona collaborazione. Un leader dotato di intelligenza emotiva, al contrario, deve essere in grado di controllare la propria rabbia, incanalarla, e far trapelare la giusta dose di questa emozione utile invece a spronare i dipendenti, facendo loro capire l’importanza dell’obiettivo trattato e la necessità di rimediare a determinati errori per il bene comune.

Bisogna quindi imparare a divenire consapevoli riguardo alle fluttuazioni del proprio stesso umore, così da essere in grado di prevenire alcune emozioni negative e controllarle nel modo più proficuo. L’intelligenza emotiva, infatti, non è un’abilità “fissata alla nascita”, quanto piuttosto una competenza che si acquisisce e che migliora man mano che facciamo esperienza in campo sociale. In particolare, sempre per Goleman (2001), tale competenza è caratterizzata da:

  • Consapevolezza di sé: la capacità di riconoscere le proprie emozioni, di capire come queste potrebbero andare ad influenzare gli altri ed usare questa conoscenza per guidare i propri processi decisionali
  • Dominio si sé: ovvero saper gestire le proprie emozioni e far in modo che queste, anziché ostacolare il compito in corso, lo facilitino e lo arricchiscano
  • Motivazione: la capacità di riconoscere le emozioni negative per trarne comunque un aspetto positivo, prevenendo le frustrazioni e gestendo gli insuccessi
  • Empatia: la capacità di riconoscere le emozioni altrui, di adottare la loro prospettiva e di armonizzare lo stato d’animo di una gamma di persone diverse fra loro
  • Abilità sociale: essere in grado di “leggere” al meglio i differenti scenari e le differenti situazioni sociali in cui si è immersi, facendo in modo di interagire in maniera costruttiva con i membri del team, persuaderli, evitare dispute e guidarli verso obiettivi comuni

2. Intelligenza emotiva e leadership

Nel ruolo di leader, l’inettitudine a livello interpersonale può abbassare il livello delle prestazioni dell’intera compagnia, perché scopo di un leader è essenzialmente quello di ottenere che gli altri svolgano il loro compito nel miglior modo possibile e questo prevede che egli non eroda la loro motivazione, non generi astio e non ne mini l’impegno. Un buon leader deve, in sintesi, essere in grado di gestire tutte quelle situazioni ad “alto potenziale emotivo”. Un buon leader deve essere in grado di orientare le emozioni nella giusta direzione, altrimenti tutto quello che egli avrà intrapreso sino a quel momento, che si tratti di fini strategie o di brillanti investimenti monetari, verrà inevitabilmente intaccato (Ciarrochi, 2001).

Questo perché, come già accennato, i dipendenti osservano con estrema attenzione il comportamento e lo stato d’animo del loro superiore, cogliendone ogni variazione e lasciandosene il più delle volte contagiare (Barsade e Donald, 1998). Il leader, infatti, è solito prendere più spesso la parola e, soprattutto, più a lungo degli altri, catalizzando l’attenzione. In aggiunta, nel caso i dipendenti si trovino a fare un’osservazione, la faranno basandosi, nella maggior parte dei casi, su opinioni già espresse dal leader stesso, piuttosto che da altri colleghi, attribuendo un peso ancor maggiore al punto di vista del leader.

Ma il cosiddetto contagio emotivo si riscontra anche quando il leader non è a contatto diretto con i propri dipendenti, perché, in questo caso, egli influenzerà comunque lo stato d’animo dei collaboratori più stretti, che, per “effetto domino”, si riverbererà a sua volta sul clima emotivo dell’intera azienda. È stato inoltre dimostrato che questo contagio può avvenire anche in modo estremamente rapido. In uno studio di Bartel e Saavedra (2000) sono stati osservati 70 gruppi di lavoro operanti ognuno in un settore differente, cui veniva somministrato un questionario self-report ad intervalli regolari, in modo da monitorare lo stato emotivo. Ne è risultato che i partecipanti ad una stessa riunione finivano per condividere lo stesso stato d’animo nel giro di appena due ore, sia nel caso che questo fosse positivo sia nel caso invece fosse negativo.

L’impatto del leader non si limita alle espressioni verbali ed esplicite: i collaboratori prestano estrema attenzione anche alle sue reazioni emotive, soprattutto nelle situazioni ambigue, quando tali reazioni rappresentano l’unica informazione disponibile.

In ambito di negoziazione, ad esempio, è stato notato che comunicare la rabbia può essere controproducente, poiché potrebbe portare a diminuire il grado di cooperazione (Ferracci et al., 2021). Anche in uno studio di Van Dijk e colleghi (2008) è stato osservato che comunicare la rabbia diventava dannoso perché le controparti ricambiavano le emozioni del loro interlocutore. In parole povere, i partecipanti si arrabbiavano quando si confrontavano con un interlocutore arrabbiato, generando in loro competitività, evitamento e rifiuto (Hess e Blairy, 2001; Horstmann, 2003), ma diventavano invece felici quando si confrontavano con un interlocutore felice, generando in loro fiducia e cooperazione (Ferracci et al., 2021).

A fornire una buona notizia in merito è uno studio condotto alla School of Management della Yale University (Sigal et al., 1998), il quale dimostra che le emozioni più facili da diffondere sono per l’appunto l’allegria e la cordialità. Lo studio evidenzia inoltre quanto questi stati d’animo positivi abbiano implicazioni dirette sul rendimento, sull’efficacia del lavoro svolto e sui risultati professionali.

3. Diversi stili di leadership

In un altro testo del 2002, intitolato “Essere Leader: Guidare gli altri grazie all’intelligenza emotiva”, Goleman evidenzia come non sono solo le abilità relazionali, lo stato d’animo positivo o l’abilità nel trovare le parole giuste ad avere un ruolo importante; infatti, quando si tratta di ottenere risultati ci sono alcune competenze che concorrono a definire diversi stili di leadership.

Goleman ne individua e ne descrive sei:

  1. Leader visionario. È quel leader in grado di indicare al gruppo una meta ben precisa, senza tuttavia forzare la strada da percorrere per raggiungerla, lasciando al singolo un certo grado di libertà e di indipendenza. Se c’è un progetto che prevede determinati obiettivi, lo stile di leadership visionario farà in modo che tutti possano esprimere la loro idea e collaborare in autonomia, creando uno spirito di impegno e coinvolgimento all’interno del team.
  2. Leader coach. È quel leader in grado di sostenere e motivare il dipendente a livello personale, andando oltre gli obiettivi aziendali, e facendo leva sugli obiettivi, i sogni e le aspirazioni individuali. Il leader coach stabilisce con i propri dipendenti un rapporto di fiducia e di intesa, acquisendo anche il ruolo di mentore e maestro. Superfluo dire che questa tipologia di leadership suscita emozioni molto positive nei membri del team e crea un legame profondo con il leader stesso, oltre che con i valori dell’azienda.
  3. Leader affiliativo. Questo stile tende a dare valore ai sentimenti e ai bisogni emozionali dei membri del team, mettendo al centro il benessere e l’armonia generale, anziché la mera esecuzione dei compiti. Questo stile, naturalmente, non impatta di per sé sulle prestazioni, ma è utile in tutti quei momenti in cui è necessario risollevare il morale e creare coesione all’interno del gruppo. Un leader affiliativo presenta spiccate competenze in ambito collaborativo ed è in grado di coltivare interazioni amichevoli con il proprio personale.
  4. Leader democratico. Per molti versi simili allo stile visionario, lo stile democratico è proprio di un leader in grado di confrontarsi costantemente con il proprio team e ascoltare le loro idee per prendere decisioni. Il leader democratico non sottolinea la componente gerarchica insita nel proprio ruolo e si integra perfettamente nel gruppo, chiedendo consiglio ai dipendenti quando si presenta un problema. Questo stile è in grado di creare un forte consenso e una forte coesione tra i dipendenti. È necessario ovviamente presentare attenzione a non lasciarsi fuorviare dalle troppe idee e, soprattutto, a non sottoporre questioni su cui i dipendenti non hanno competenze.
  5. Leader «battistrada». Lo stile cosiddetto «battistrada» è quello proprio di un leader votato esclusivamente all’eccellenza e al raggiungimento dei risultati, all’incremento dei margini e dei profitti. Chiaramente questo è uno stile che può essere utilizzato solo nel momento in cui si ha a che fare con un team di tecnici perfettamente competenti, i quali possono trarre il maggior vantaggio dall’essere spronati a raggiungere standard elevati. Nella maggior parte delle altre circostanze questo stile potrebbe dare risultati controproducenti e diffondere un elevato stato di ansia nei dipendenti.
  6. Leader autoritario. È uno stile di leadership in cui chi è al vertice esige obbedienza immediata, tende a non ascoltare le idee altrui e ad imporre la sua visione, esercitando il controllo ferreo su quante più situazioni possibili. Per la regola del contagio emotivo di cui si parlava nel precedente paragrafo, un leader freddo ed intimidatorio non farà altro che diffondere emozioni negative, tra cui ansia e paura. Inutile dire che questo è lo stile di leadership in assoluto meno efficace. Può funzionare solo in situazioni di effettiva e grave emergenza.

Gli stili appena descritti non sono da considerarsi granitici e da applicare così come sono in qualunque circostanza. Un buon leader deve aver in sé tutti e sei questi stili e deve essere in grado di adottarne uno, piuttosto che un altro, in base alle situazioni che si trova ad affrontare. Un buon leader deve essere in grado di “sintonizzarsi” sullo stato emozionale dell’individuo e del gruppo, cogliendo gli indizi appropriati che gli permettano di capire quando ricorrere ad una determinata abilità di leadership.

CONCLUSIONI

Sempre nel suo testo del 2002, Goleman sottolinea nuovamente come la leadership emotiva sia una capacità che può essere appresa e non una capacità legata a fattori di nascita. Il modo migliore per sviluppare la leadership emotiva è dunque quella di praticarla ed allenarla, tramite programmi di training individuali o aziendali, o tramite corsi di formazione che promuovano la conoscenza delle dinamiche che stanno dietro alle emozioni e l’apprendimento di tecniche utili al miglioramento delle proprie competenze emotive.

Questo prevede la capacità da parte del leader di mettersi in discussione e di sfidare le proprie pregresse convinzioni legate ad una cultura manageriale per cui le emozioni vengono viste quasi come fossero un punto debole. Si deve cioè essere in grado di spostare il focus dai soli “risultati numerici” alle relazioni interpersonali e alle persone che fanno parte dell’ambiente aziendale.

Sempre nel già citato testo, Goleman promuoveva un apprendimento emotivo tramite action learning, ovvero un apprendimento basato su azione e training guidato, in cui si svolgono attività di gruppo strutturate, utili ad analizzare il proprio comportamento e quello altrui in specifiche situazioni, le quali diverranno poi strumenti di diagnosi da applicare ai reali problemi che si riscontrano in azienda.

In questo modo, le emozioni potranno diventare, non solo un veicolo per il successo personale, ma anche e soprattutto un valido alleato che consente di promuovere un clima aziendale collaborativo e proattivo, in grado di condurre a decisioni migliori e al raggiungimento di elevate prestazioni professionali.

BIBLIOGRAFIA

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