Nel mondo del bambino: educare attraverso il gioco

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L’imponente quantità di conoscenze scientifiche sull’infanzia maturate finora conferma che la  qualità dell’educazione successiva è potentemente condizionata da quella ricevuta nell’ infanzia. Eventuali programmi di sviluppo delle capacità linguistiche, logiche, espressive, sociali, affettive, etiche, motorie della persona hanno tante più speranze di successo quanto più sono precoci e ben organizzati sul piano pedagogico. Esistono quindi tutte le condizioni di opportunità e di merito per concentrare l’attenzione di tutti sull’importanza sociale e pedagogica della scuola dell’infanzia e per ribadire il ruolo istituzionale centrale che essa assume nell’insieme del sistema educativo di istruzione e di formazione”     (Rapporto Bertagna 2001).

Spesso si parte dal principio secondo il quale gli obiettivi di efficacia e di equità, in ambito educativo, si oppongono; gli uni si realizzano a scapito degli altri. Ma, come indica la comunicazione della Commissione del 2006 entrambe le componenti si rafforzano a vicenda. Questa osservazione è ancora più vera relativamente all’educazione pre-primaria.

È più efficace e più equo investire sull’istruzione molto presto.
Infatti, correggere degli insuccessi in un momento successivo non è solamente non equo, ma anche e soprattutto inefficace. Ciò non solo perché l’educazione pre-primaria facilita l’apprendimento successivo, ma anche perché moltissimi dati indicano che l’istruzione, in particolare quella destinata ai bambini svantaggiati, può produrre importanti risultati socio-economici.
L’infanzia è un periodo particolarmente sensibile per lo sviluppo dei bambini e una grande manifestazione della personalità è il gioco, che trae origine da un bisogno interiore.
Il gioco dà al bambino fiducia nelle sue possibilità,capacità di prendere coscienza della realtà che lo circonda e lo mette in condizione di modificarla a suo piacimento, realizzando desideri impossibili, compensando le frustrazioni, scaricando le ansie e liberandosi dalle angosce.
Il gioco come sublimazione dell’aggressività consente di dirottare gli impulsi distruttivi verso attività socialmente accettabili. L’attività ludica avvia il bambino alla conoscenza di ciò che accade intorno a lui e stimola lo sviluppo delle funzioni cognitive: con il gioco il bambino adatta le situazioni ai suoi scopi, ne analizza le caratteristiche e stabilisce le relazioni tra vari elementi della realtà.L’importanza del gioco era già stata riconosciuta presso i Greci e i Romani, ma si trattava di una materia di studio (teorica, nel senso che si imparavano molte regole; pratica, nel senso che si svolgevano esercizi più che altro ginnici).
Il gioco non era né spontaneo né piacevole.

L’idea di introdurre il gioco nel campo educativo risale a Rousseau. Prima di lui la scuola era concepita solo per un lavoro serio e disciplinato, dove l’allievo doveva imparare a memoria determinate nozioni e acquisire determinati comportamenti, in un clima di severità, ubbidienza e distacco, ottenuto anche a costo di punizioni fisiche.
Bisognerà aspettare i pedagogisti moderni perché si realizzi un’impostazione psicologica ed educativa dei giochi infantili, intesi come formidabile mezzo per sviluppare integralmente la vita psico-fisica del bambino.
Il gioco avvia alle attività mentali complesse e favorisce lo sviluppo delle funzioni simboliche, arricchisce l’immaginazione, stimola la creatività e il pensiero divergente, sviluppa la sintesi intellettiva e consente al bambino di realizzare la sua integrazione nell’ambiente.
Nei primi due anni di vita, le principali forme di gioco si manifestano nella gioia di conquistare l’ambiente circostante, nella possibilità di scoprirne le caratteristiche e di utilizzarle per soddisfare i propri bisogni: il bambino si diverte a lasciar cadere continuamente un oggetto per la gioia di percepirne il rumore, ripete di continuo i suoni o le parole pronunciate dagli altri.
A partire dai due anni, scopre e giudica il proprio ambiente di vita attraverso i suoi giochi di fantasia.
Mettendo in pratica il gioco del«far finta»il bambino richiama alla mente avvenimenti e situazioni vissute precedentemente e cerca di riprodurle adattandole alle esigenze emotive del momento.
Il gioco di pura imitazione si trasforma in gioco simbolico: il bambino non riproduce la realtà così come la percepisce, ma la assimila e le attribuisce caratteristiche personali.
Nella fase percettivo-motoria, non appena il bambino inizia a muoversi, calciare e afferrare gli oggetti più vicini per portarli alla bocca, il suo spazio potrà arricchirsi di moltissimi oggetti, dal cui contatto il bambino trarrà preziose esperienze.
All’inizio il bambino manipola e succhia gli oggetti per scoprire “di che cosa” sono fatti.

Attraverso queste esperienze, nel bambino si avviano i processi mentali percettivi e motori necessari allo sviluppo del suo pensiero. Successivamente il gioco del “nascondino” gli consentirà di pervenire all’acquisizione della “permanenza dell’oggetto”. Molto presto l’attività, non più soltanto percettiva, diventa “imitativa”. Si definisce “imitazione” ogni tentativo del bambino di riformulare per conto proprio movimenti ed espressioni compiute da altri: dopo i 18 mesi, si ha il manifestarsi di un’imitazione differita nel tempo. Il bambino diventa capace di ripetere anche dopo ore o giorni un movimento da cui è stato attratto o incuriosito.
L’attività rappresentativa del bambino è favorita da un diffuso tipo di gioco infantile, quello a carattere simbolico. Mentre nell’attività percettivo-motoria il bambino studia l’oggetto di per sé, la sua consistenza, forma e colore, l’uso, nell’attività simbolica le proprietà dell’oggetto sono state ormai scoperte, ma questo comincia ad essere manipolato in modo diverso: non rappresenta più solo se stesso, ma qualcosa di più appropriato al momentaneo desiderio del bambino.
Un pezzetto di legno può rappresentare una barca, una penna etc.; un pupazzo può simboleggiare un fratellino e così via; il contenuto del ricordo da cui il bambino prende le mosse (scena familiare) viene analizzato  e trasposto nel momento attuale di gioco.
L’attività ludica aiuta il bambino ad affrontare il mondo degli adulti senza rimanere preda dei pregiudizi, a superare i timori e l’angoscia dell’ignoto.A volte è sufficiente cercare in un pupazzetto un sostituto della persona temuta e creare delle situazioni in cui il bambino non si lascia sopraffare dalle emozioni, ma può superare le difficoltà. Il gioco assume così un valore catartico (liberazione dagli stati angosciosi), contribuendo all’organizzazione della vita emotiva ed affettiva.
Nel gioco simbolico il bambino non riproduce la realtà come la percepisce, ma le attribuisce caratteristiche personali.
L’oggetto perde i suoi caratteri universali e diviene il simbolo di qualcos’altro (ad esempio una sedia rovesciata può trasformarsi in un trenino).

Secondo Anna Oliverio Ferraris “nel piacere del far finta di… il bambino assume un ruolo che gli consente di entrare nel mondo degli adulti, scegliendolo tra quelli che vede nella vita reale e nella finzione della Tv”.Fino ai tre anni il gioco ha la funzione importantissima di far sperimentare al bambino la qualità e l’uso degli oggetti che lo circondano, di farlo allenare ad un sempre più perfezionato rapporto con essi. Un bambino gioca con la stessa seria concentrazione con cui un adulto esegue un duro lavoro: giocando si pone in rapporto con il mondo esterno.

Il bambino di cinque o sei anni si diverte non soltanto a sentir raccontare le favole, ma soprattutto a inventarle egli stesso, immaginandosi in un mondo fantastico, costruito sulla base dei suoi desideri. A volte il bambino si immerge a tal punto nelle storie che ne inventa delle altre, in modo da continuare il suo gioco anche con gli adulti, tentando di coinvolgerli nel proprio mondo fantastico. Così com’è importante il gioco nell’età evolutiva, risultano esserlo anche le favole.
Le favole danno la possibilità ai bambini, e non solo, di entrare alla scoperta del proprio mondo emotivo. Spesso, quando si ascolta una fiaba si viene totalmente assorbiti da questa. Ancora di più nel caso dei bambini. È possibile attraverso le fiabe apprendere schemi nuovi di comportamento, imparare a rispondere più efficacemente a situazioni difficili o di disagio.
In questo modo si impara a non rimanere vinti dalle emozioni che si vivono. Riconoscersi nei protagonisti, identificandosi con loro, darà modo al bambino di entrare in contatto con le emozioni, impareranno a riconoscerle, a dargli un nome e quindi ad esprimerle.
Il momento delle storie raccontate e ascoltate dalla mamma e dal papà, magari accoccolati tra le loro braccia, prende un significato emotivo molto più grande del gesto in sé.
Il tempo del racconto prima di andare a dormire è molto importante per la relazione tra genitori e figli.

Il tempo che un genitore dedica al proprio figlio parla di generosità, istruisce il piacere del dare e del ricevere. È un tempo che manifesta affetto e pazienza. È un tempo ricco di presenza, in cui il solo “stare” è già di per sé un momento che dona sicurezza al bambino, lo aiuta nella crescita delle sue capacità emotive e cognitive. Questo spazio può essere riempito di domande, racconti su come è andata la propria giornata, riflessioni, fantasie e immagini. È uno spazio fecondo in cui possono crescere la fiducia verso se stessi, la capacità di superare piccole paure, insicurezze e conflitti.Per cui è molto meglio far addormentare i bimbi in questo modo, piuttosto che davanti alla tivù o nella stanza da soli.Ci sono favole per ogni età. Già ad un anno, i bambini possono prestare attenzione a brevi e semplici racconti, per esempio piccoli libri fatti di figure semplici.
Poi crescendo, si noterà che i bimbi sono in grado di seguire racconti via via sempre più complessi. Intorno ai 3-4 anni il loro interesse sarà focalizzato attorno a quelle storie che rimandano alle loro attività quotidiane, come per esempio mangiare, dormire, vestirsi, giocare, lavarsi denti. Invece intorno ai 4-5 anni gli piacerà ascoltare e identificarsi con storie riguardanti fate, principesse, cavalieri, maghi, animali.
È importante sviluppare il “muscolo” dell’immaginazione, sia per l’età infantile che, in futuro, per quella adulta. E’ utile per capire e superare i drammi della vita, come l’abbandono, la cattiveria, la paura. Le favole, insieme a diverse modalità di gioco possono essere utili a favorire la fiducia in sé stessi, a comprendere meglio alcuni eventi, infondere nel bambino un senso di accoglienza e protezione.Ogni forma di attività ludica riveste un ruolo rassicurante e di compensazione della realtà. Il gioco è necessario per crescere, conoscere e socializzare.

Dai tre ai sei anni il gioco di gruppo è caratterizzato dall’incoerenza e dalla mancanza di regole: ogni bambino cerca di realizzare nel gioco le sue esigenze, vuole emergere a spese degli altri e non riesce a tollerare le rinunce. L’acquisizione di un ruolo (ciò che ciascuno deve fare all’interno del gruppo) è il primo passo verso l’interazione. Dopo i sei anni il bambino comincia a giocare in gruppo e ad interagire con gli altri. Il gioco di gruppo si fonda sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti.A partire dalla preadolescenza viene accettato il rispetto rigoroso della regola e viene tollerata l’eventuale punizione affinché tutti vengano giudicati allo stesso modo. L’accettazione delle regole richiede il superamento dell’egocentrismo infantile. Esse sono astratte e possono essere comprese soltanto a partire dagli undici anni circa, età in cui il ragazzo è in grado di sganciarsi dal mondo concreto, di effettuare delle ipotesi riuscendo a valutare la realtà da punti di vista diversi dal proprio e ad immedesimarsi negli altri. Il ragazzo accetta la sanzione nel gioco come garanzia e anche come fattore di sicurezza: in caso di successo, la regola premierebbe lui anziché il compagno.

In ambito psicologico, pedagogico e sociologico, il gioco è stato per anni focus di analisi sullo sviluppo infantile, con l’intento di comprendere il mondo soggettivo, relazionale, cognitivo e  comportamentale del bambino. Il bambino, quando presenta un normale sviluppo psico-affettivo e quando è a lui offerta questa possibilità, utilizza quotidianamente un gran numero di giochi.
Per la sua valenza di mediatore fra realtà esterna e realtà interna, il gioco costituisce un mezzo terapeutico privilegiato con i bambini i quali, pur con differenze legate all’età, non hanno le competenze degli adulti nel riconoscere ed esprimere i propri stati d’animo né per dare un corretto significato agli eventi; la dimensione del gioco, mediante l’utilizzo fantastico di oggetti reali, ben si presta allora a rappresentare i vissuti dei bambini, a renderli “visibili” e quindi condividibili.
La psicoanalista inglese M. Klein(1882-1960), introduce il gioco nel lavoro terapeutico con i bambini, i quali si esprimono attraverso l’ausilio di piccoli giocattoli messi alla loro portata, questo è possibile anche per coloro i quali il linguaggio non è ancora completamente disponibile.Il gioco diviene così un linguaggio da interpretare prestando attenzione ai singoli fattori che lo costituiscono (durata, materiale, simboli, caratteristiche, difficoltà, partecipazione).
M. Klein sostiene che i giochi dei bambini hanno una facciata dietro cui è possibile scoprire un contenuto latente soltanto attraverso un’analisi accurata; proprio così come accade per scoprire il contenuto latente dei sogni. La Klein sostiene a questo proposito che esistono giochi da bambine – come quello “della mamma”, in cui le femmine rappresentano il soddisfacimento dei loro desideri di maternità ed esternano un grosso desiderio di conforto e consolazione – e giochi da bambini, come quelli con macchinine, carretti, cavalli e treni, oppure quello “della lotta” dove il bambino dimostra coraggio, abilità e astuzia per difendersi dai nemici e per difendersi.
Per ambedue i sessi ciò che appare importante in quest’ottica è la possibilità di giocare senza inibizioni: l’inibizione al gioco o l’ossessivo interesse per una sola specifica modalità ludica sono interpretabili come conseguenze di inadeguatezze che generano conflitti emotivi nel bambino.
Osservare come, con cosa e con chi gioca il bambino può aiutare l’adulto a promuovere la progettazione di ambienti ludici più stimolanti, l’adozione di comportamenti propedeutici al suo sviluppo, modelli di interazione con il bambino centrati sul linguaggio e sulla capacità di esprimere in modo differenziato i propri sentimenti, l’impiego di materiale che si presti a molteplici combinazioni ludiche e a diverse rappresentazioni simboliche.Aiutare il bambino a giocare meglio e di più equivale a permettergli di esteriorizzare le sue fantasie di onnipotenza, così come quelle di inadeguatezza. Giocare diviene così il modo per esprimere i propri stati d’animo e, nello stesso tempo, per individuare possibili conflitti.
La prima persona ad utilizzare in maniera formale il gioco associandolo all’interazione verbale fu Hermine von Hug-Helmut, una studentessa di Freud. Hug-Helmut nel 1920 scrisse un articolo nel quale evidenziava come i bambini trovassero sollievo e aiuto non tanto nell’intuizione e nell’apprendimento cosciente, quanto nel gioco in sè.

Secondo Erikson (1902-1994), attraverso il gioco, il bambino può controllare la propria aggressività organizzandola in funzione sociale e può inoltre controllare una realtà frustrante in quanto il gioco assolve alla funzione di superamento della sofferenza. Se osserviamo un bambino che gioca, vediamo che egli spesso distrugge ciò che fa con tanta cura : è questo un tentativo di controllare un’ esperienza che lui ha vissuto negativamente su di sé. Il gioco nella vita infantile è anche l’elemento principale che favorisce l’apprendimento; dà la possibilità di passare gradualmente dai problemi (giochi) più semplici a quelli più complessi e difficili; ed inoltre la possibilità di verifica del successo o dell’errore. Erickson osservò come il gioco è il mezzo di cui i bambini dispongono per arrivare a controllare l’esperienza traumatica; sostenendo che la finzione che si genera nel gioco va ad eliminare l’eventuale sopraggiungere di sensi di colpa che potrebbero comparire qualora quella stessa finzione divenisse dolore reale. Dunque, il gioco è un egente terapeutico in quanto possiede fattori terapeutici capaci di produrre effetti positivi nell’individuo.
La tecnica del gioco è tutt’oggi in uso nella play therapy; vi sono vari approcci che differiscono filosoficamente e tecnicamente, ma sono simili nel loro uso di proprietà terapeutiche e di sviluppo del gioco per aiutare i bambini a raggiungere una crescita e uno sviluppo ottimale.

La Play Therapy è un ampio settore sviluppatosi a cavallo del XX secolo che utilizza sistematicamente la naturale

inclinazione a giocare come mezzo per creare un ambiente terapeutico emotivamente sicuro che incoraggia la comunicazione, la creazione di relazione, l’espressione e la risoluzione dei problemi del bambino.
L’aspetto principe è il divertimento; molto importante è la rilevanza del processo sul risultato ed anche: la volontarietà, non bisogna mai obbligare il bambino a giocare; il controllo interno, il giocatore sceglie cosa fare e come fare; il coinvolgimento attivo, guardare non è giocare; la motivazione intrinseca, il gioco non ha bisogno di rinforzi,(Rise VanFleet, 2010)
Schaefer (1993), definisce poteri terapeutici queifattori che esercitano un effetto benefico poiché determinano una diminuzione dei sintomi o aumentano il comportamento desiderato”.
In riferimento ai poteri terapeutici primari della Play Therapy identificati da Schaefer nel ’99, riscontriamo:

Addestramento comportamentale. Il gioco permette al terapeuta di modellare alcuni comportamenti rendendoli più adattivi (assertività vs. aggressività);
Attaccamento. I genitori che partecipano ai giochi con i loro figli hanno maggiori possibilità di sviluppare un attaccamento sicuro (gioco senso-motorio e interattivo);il terapeuta insegna ai genitori come creare un maggiore attaccamento genitori/figli tramite il gioco interattivo e senso-motorio;
Abreazione. I bambini tramite il gioco rivivono determinate esperienze traumatiche, questo gli permette, in modo graduale, di riviverle e di avere un maggior controllo su di esse. Gli adulti “parlano”, i bambini giocano.
Sfogo. Il rilascio emotivo è universalmente riconosciuto come elemento essenziale in ogni tipologia di terapia.Il bambino nella sala giochi può esprimere queste emozioni colpendo un pupazzo gonfiabile, dei palloni, o lavorando con l’argilla, sciogliendo così le tensioni fisiologiche e psicologiche accumulate e represse;
Competenza. Nel gioco i bambini creano, raccontano storie, affrontano sfide, costruiscono interi mondi, sviluppano un senso di competenza che sostiene il crescere del loro senso di autostima permettendogli di far fronte a future richieste e obiettivi.
Contro-condizionamento. Alcuni condizioni emotive interne si escludono reciprocamente, pertanto alcune situazioni di giocosità possono essere utilizzate come contropartita per situazioni spiacevoli.
esempio se riusciamo a far giocare a nascondino un bambino, che ha paura del buio, in una stanza buia, questo lo porterebbe ad affrontare meglio le sue paure.
Espressione di sé. I bambini piccoli esprimono, tramite attività di gioco e materiale ludico, i propri stati interni. Il loro vocabolario e la ristretta abilità di pensiero astratto, limitano l’espressione dei loro pensieri e delle loro emozioni coscienti. Il gioco gli permette di esprimersi in maniera indiretta consentendo loro di interporre della distanza psicologica ai sentimenti dolorosi.
Facilita l’apprendimento. Il gioco, come attività piacevole, stimola l’attenzione e l’apprendimento, facilitando pensieri e comportamenti più adattivi, maggiori abilità sociali ed emozionali.
Fantasie compensatorie.Il gioco permette di sviluppare aspetti compensatori assenti, il bambino può esser più forte, più coraggioso, più ricco. Il gioco assume una valenza sostitutiva dei desideri del bambino, diventando così un elemento compensatorio.
Locus of control. Nella vita reale il bambino ha poche possibilità di controllo sugli eventi, nel gioco può far accadere ciò che vuole, tenere la situazione sotto controllo, sentirsi potente; poter sviluppare un locus of control interno
Self control. Attraverso giochi particolari, come i giochi da tavolo o le costruzioni, il bambino sviluppa ed apprende le abilità di controllo di sé, dei propri impulsi, della posticipazione e della gratificazione
Soluzione creativa dei problemi. L’incremento del pensiero divergente e della creatività sono spesso associati al gioco, il bambino cerca sempre nuove combinazioni e scoperte nel gioco che lo porteranno poi ad avere maggiori risorse per risolvere problemi personali e sociali.

Il ricorso al gioco nella pratica clinica con i bambini si è enormemente sviluppato.
Anche se non diffusa in maniera uniforme in tutto il mondo, la Play Therapy è comunque una pratica conosciuta ed applicata in molti Paesi, in particolare in Nord America, Nord Europa, Corea del Sud e Giappone. Attualmente esistono una varietà di approcci diversi tra cui la Play Therapy Psicoanalitica, Adleriana, Centrata sul Cliente, Cognitivo-Comportamentale, Eco-sistemica, Filial (Genitore-bambino), Prescrittiva, etc. che utilizzano i principi terapeutici del gioco nella pratica clinica non solo con bambini anche al di sotto dei tre anni ma anche con adolescenti ed adulti.
L’aspetto comune a ciascun modello di Play Therapy è quello di utilizzare il gioco, più che la parola, come principale mezzo di comunicazione. Non tutte le attività ludiche che coinvolgono un adulto e un bambino possono considerarsi Play Therapy, anche se generano comunque effetti positivi.
Si parla di play around quando un adulto gioca semplicemente con uno o più bambini.
Nelle situazioni in cui il gioco è utilizzato come mezzo per favorire la realizzazione di un altro intervento si parla di play work. Un esempio di play work è l’adattamento del gioco a contesti come quelli medici, nei quali si utilizzano delle attività ludiche per consentire al bambino di sottoporsi a procedure mediche con minor tensione e sofferenza.
Diversamente dalle precedenti attività, la Play Therapy si realizza quando il gioco è utilizzato come processo terapeutico, nel senso che attraverso di esso si individuano prima difficoltà ed obiettivi e poi si intraprende un processo attraverso il quale il cliente sarà aiutato a superare le proprie difficoltà e raggiungere uno sviluppo più pieno e positivo.Negli interventi che vengono ricondotti al settore dei modelli non direttivi, il terapeuta seleziona con attenzione i giocattoli nella stanza dei giochi per aiutare i bambini ad esprimere una varietà di sentimenti e problemi.
Sarà poi il bambino a scegliere quali giocattoli utilizzare ed anche il modo con cui intende giocarvi.
Il terapeuta segue empaticamente l’iniziativa del bambino unendosi a giochi di finzione e immaginazione quando invitato dal bambino e fornisce nei momenti opportuni i limiti per tutelarne l’integrità fisica e favorire l’esercizio e lo sviluppo dell’autocontrollo.
L’intero lavoro è rivolto a creare un’atmosfera sicura nel quale il bambino si senta libero di esprimere se stesso, provare cose nuove, apprendere regole e restrizioni sociali, affrontare ed elaborare i propri problemi.
Nell’ampio settore dei modelli direttivi è invece il terapeuta a proporre, di volta in volta, le attività di gioco in base al piano terapeutico che ha formulato.

Inoltre, rispetto ad un’ampia varietà di problematiche, la Play Therapy rappresenta una scelta ideale in quanto numerose ricerche ne sostengono l’efficacia sia in relazione ad un’ampia varietà di problemi che nell’acquisizione di comportamenti desiderati e specifiche abilità; si basa su un ampio repertorio di approcci e attività che rendono gli interventi adattabili ai contesti e alle diverse situazioni; le attività espresse attraverso il gioco sono sempre appropriate e in sintonia rispetto al livello evolutivo del bambino; coinvolge e diverte consentendo inoltre di superare resistenze e difese.
La psicologia dello sviluppo e la sua ricerca, infatti, sostengono l’efficacia della terapia del gioco (play therapy ) in un’ampia varietà di problematiche come i disturbi del comportamento, i disturbi pervasivi dello sviluppo,crisi e traumi, il divorzio, il decesso, il cambio d’abitazione, malattie croniche, abusi fisici e sessuali, violenze domestiche e disastri naturali.

Un’altra forma di Play Therapy è quella Familiare. In questa tipologia di interventi è l’intera famiglia ad essere coinvolta in giochi ed attività ludiche. Una forma particolare di intervento Familiare è la FilialTherapy, dove i genitori diventano gli agenti principali nel trattamento dei propri figli in quanto vengono formati dal terapeuta ad attuare sessioni di gioco non direttivo (centrato sul bambino).Tramite la FilialTherapy, ai genitori vengono insegnate le competenze necessarie da utilizzare in ambito domestico, fondate essenzialmente sulla strutturazione, l’ascolto empatico, il gioco immaginario e la definizione dei limiti; (Rise VanFleet, 2011). L’obiettivo è di dotare i genitori degli strumenti idonei a cambiare non solo le relazioni con i propri figli, ma anche il loro comportamento in ambito domiciliare e familiare.
Secondo il modello, il gioco è inteso come strumento di terapia, che permette di migliorare non solo il rapporto genitori-figli ma anche di influenzare positivamente i rapporti coniugali, le reti tra pari e le relazioni familiari in generale.
Ogni attività è sempre adattata al livello di sviluppo del bambino, per cui con il crescere dell’età e l’ulteriore sviluppo del linguaggio e delle capacità cognitive si utilizzano modalità di Play Therapy adeguate, in cui il linguaggio assume progressivamente una proporzione maggiore rispetto al gioco. Anche gli strumenti del mestiere variano a seconda dell’approccio e del tipo di lavoro che si intende eseguire; solitamente il terapeuta si chiede “l’articolo è sicuro per il bambino?”, “Incoraggia l’espressione dei sentimenti dei bambini o dei temi? ”, “ Permette l’utilizzo proiettivo o immaginativo da parte del bambino?”.
Tra gli articoli comuni, nella stanza del gioco, ritroviamo:
– Giochi relativi alla famiglia e all’accudimento (famiglia di bambole, marionette e pupazzi assortiti, casa delle bambole, etc.).
– Giochi relativi all’aspetto aggressivo (pistole con freccette morbide dal chiaro aspetto digiocattolo, soldatini, animali spaventosi, etc.).
– Giochi di costruzione
– Giochi espressivi (matite colorate, pennarelli con carta da disegno, argilla, play-doh o altre sostanze modellanti, vassoio per il gioco della sabbia, miniature e modellini).
– Altri giochi multiuso (modellini, giochi da tavolo, etc).

Un progetto di FilialTherapy parte dall’osservazione del gioco in ambito familiare, come si gioca, chi gioca con chi, dove si gioca, con che cosa si gioca. La FilialTherapy è particolarmente adatta per bambini in una fascia d’età compresa dai 3 ai 12 anni, le sessioni di gioco dedicate durano mediamente 30-35 minuti, un genitore e un bambino alla volta. Nella fase iniziale sono eseguite dimostrazioni di gioco da parte dello specialista, si passa poi alla formazione genitoriale e in seguito a sessioni di FilialTherapy supervisionate dallo specialista.
Questa tipologia d’interventi risultano molto efficaci sia per lo sviluppo ottimale del bambino, sia per un miglioramento generale del suo funzionamento psichico e sociale; lo testimonia la ricerca in ludoterapia, la quale ha dimostrato gli effetti benefici con meno di quattordici sessioni di gioco, e alcuni effetti positivi sono misurabili già dopo due sessioni.
Specificatamente, nell’ambiente scolastico, Fall, Balvanz, Johnson e Nelson trovarono un significativo aumento dell’autoefficacia nei bambini che hanno frequentato sei sessioni di ludoterapia, comparati con un gruppo di controllo che non ha ricevuto alcun intervento.
Uno degli obiettivi fondamentali è ottenere il supporto di genitori ed insegnanti nel progetto scolastico basato sulla terapia del gioco. Sarebbe utile e consigliabile che, lo psicologo scolastico, formi gli insegnanti al fine di comprendere che la facilitazione delle terapia del gioco a scuola, richiede la loro collaborazione nella programmazione della sessione di gioco.
Gli psicologi della scuola possono avere un impatto maggiore rispetto ai bambini, nel coinvolgere genitori ed insegnanti durante il trattamento. I rapporti dei bambini con i loro genitori e con gli insegnanti sono di primaria importanza per il loro benessere, perciò insegnare a queste figure di riferimento come interagire in maniera più efficace con i bambini ha un potenziale significativo sia in termini preventivi che in termini terapeutici. Sembrerebbeche gli insegnanti possano presentare resistenza all’idea che un bambino lasci la classe per giocare, se non sta procedendo bene accademicamente o se un bambino ha avuto problemi comportamentali in classe. Uno degli obiettivi trasversali di questo approccio è anche quello di rieducare la mentalità scolastica.

Iniziare l’anno accademico con una breve terapia di gioco, la formazione del personale, spiegando ed elencando i benefici emotivi e comportamentali, e condividendo le modalità di attuazione del programma, aiuta ad avviare l’insegnante al sostegno del programma scolastico.Per garantire e far crescere il supporto, si consiglia allo psicologo della scuola di condurre una consultazione costante su base mensile con gli insegnanti dei bambini in terapia di gioco.
La consultazione si compone nell’ ascoltare la preoccupazione dell’insegnante, la registrazione di eventuali cambiamenti comportamentali e condividere i progressi generali dei bambini.
Nella formazione iniziale, lo psicologo tramanda l’assunto base enfatizzato daLandreth dell’ “essere con” e della capacità del terapista (o anche dell’insegnante) di saper entrare nel mondo del bambino. Solo quando il bambino inizia a sentirsi sicuro, accettato e capito, inizierà ad esprimere queste sensazioni che sono emotivamente le più significative. Perciò tutte le capacità, verbali e non, sono usate per comunicare quattro messaggi al bambino: “sono qui”, “ti ascolto”, “capisco”, e “mi interessa”. Le scuole d’infanzia stanno accogliendo sempre di più questa modalità d’interazione con il bambino; per entrare nel suo mondo e renderlo conoscibile e comunicabile.

Di fatto, la terapia del gioco ha dimostrato statisticamente anche effetti significativi nella riduzione dello stress nei rapporti scolastici (Ray, 2007) e nella riduzione dei comportamenti aggressivi (Schumann, 2005).Questi esempi di studi di ricerca ben progettati condotti sulla Play Therapy, supportano la validità dell’intervento in aiuto della riduzione dei problemi comportamentali, il miglioramento dell’autoefficacia, e il miglioramento dei rapporti tra gli  alunni e gli insegnanti –tutti fattori utili a potenziare le future prestazioni scolastiche.
La formazione sulla terapia del gioco può fornire alle scuole d’infanzia, un protocollo specifico per gli interventi che possono essere facilmente messi in atto nell’ambiente scolastico. Dentro questa struttura, la chiave per una terapia efficace è la costruzione di un rapporto tra il terapista e il bambino, riconoscendo la capacità del bambino di diventare una persona responsabile, affidabile, e capace.

Educa i bambini e non sarà necessario poi punire gli uomini Pitagora

A cura della dott.ssa Valeria Sestito

Bibliografia

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– Casarella F. e Sforza G., articolo: “Play Therapy“, 2011
– D’ambrosio G. – “Genitori e figli: l’importanza delle favole nei bambini…e non solo” Giugno 2013
– Erickson E.-“Il gioco nello sviluppo e nella terapia psicomotoria” a cura di Ambrosini C.
e  Pellegatta S. 2012
– Klein M., La psicoanalisi dei bambini, G.Martinelli, Firenze, 1988
– Garry L. Landreth, Dee C. Ray and Sue C. Bratton.Play Therapy in elementary schools; 5 Jan 2009
– Mochi C., seminarioformativo APTI: “Fondamentidella Play Therapy”,Roma 2010
– Schaefer C.E., “The Therapeutic Powers of Play“, Northvale NJ, Jason Aronson, 1993.
-Schaefer C.E., “The Journal for the Professional Counselor“, Volume 14, Number 1, Spring 1999.
– Trinci M., “Il bambino che gioca”, Torino 1993
– VanFleet R., (2011): “Il libro di FilialTherapy dei genitori”, Professional Resource Press Ed.