Riconoscere la violenza domestica

violenza-domestica

a cura della dott.ssa Chiara Heinrich

Abstract

La violenza domestica comprende comportamenti come aggressione fisica, abuso psicologico e coercizione sessuale all’interno delle relazioni di coppia, spesso mascherati da gentilezza oppressiva.

La teoria della “spirale della violenza” evidenzia la natura ciclica del maltrattamento: caratterizzata da fasi di riconciliazione prima di nuovi episodi violenti, conoscere tali pattern comportamentali aiuta a riconoscere e prevenire la violenza. La valutazione del rischio, tramite strumenti come il S.A.R.A., è cruciale per adottare interventi efficaci e salvaguardare l’incolumità della donna. In Italia, il progetto “Servizio uomini maltrattanti” interviene con gli autori di violenza, promuovendo l’assunzione di responsabilità e relazioni basate sul rispetto e l’uguaglianza.

Introduzione

La violenza domestica comprende una serie di comportamenti all’interno di una relazione di coppia, come aggressione fisica, abuso psicologico e coercizione sessuale. Quando questi abusi sono ripetuti, si parla di maltrattamento (OMS, 2002). Tuttavia, riconoscere la violenza può risultare difficile per il suo manifestarsi in modi mascherati, come parole gentili ma oppressive o atteggiamenti eccessivi di cura. Le cause possono essere legate a disagi personali, scarsa autostima o mancanza di educazione affettiva. Ciò che caratterizza la violenza è certamente la sua ciclicità. La teoria del ciclo della violenza (Walker, 2007) evidenzia non solo la reiterazione e l’intensità del maltrattamento, ma anche le fasi di “luna di miele” come il preludio di un nuovo inizio di violenza. Per adottare strategie di intervento adeguate, è necessario valutare il rischio di violenza interpersonale tra partner, utilizzando metodi empirici come il S.A.R.A. (Spousal Assault Risk Assessment).

Questo metodo calcola preventivamente il rischio che un uomo possa commettere nuovamente atti violenti nel breve o lungo periodo, incluso il possibile uxoricidio. Esistono, difatti, alcune circostanze che possono aumentare il rischio del comportamento criminoso, come comunicare l’intenzione di interrompere la relazione con il maltrattante, scoprire una nuova relazione amorosa o affrontare problematiche legate alla separazione, come l’affidamento dei figli o il mantenimento dell’ex coniuge. Anche la scarcerazione o la fine degli arresti domiciliari del maltrattante possono rappresentare momenti critici. In Italia, il progetto sperimentale “Servizio uomini maltrattanti” mira a prevenire la violenza domestica attraverso l’intervento con gli autori di violenza. Basato su principi di pedagogia fenomenologica, enfatizza l’assunzione di responsabilità da parte degli autori per prevenire futuri atti violenti e promuove una relazione funzionale basata sul rispetto e sulla parità. In una direzione riduzionistica, che intenda limitare, ove possibile, l’uso del

carcere con “misure alternative”, introdotte dalla legge di Riforma penitenziaria del 1975, al fine di sottolineare il diritto del reo al reinserimento, consente di riconoscere come valida, nei confronti del maltrattante, la pratica della rieducazione.

1. Il vortice della violenza domestica

Soffermandosi sull’accezione di violenza domestica, questa si intende come qualsiasi comportamento all’interno della relazione di coppia che rientri negli atti di aggressione fisica, abuso psicologico, forme di coercizione sessuale, comprese minacce di violenza o privazione arbitraria della libertà personale (Nazioni Unite, 1993). E quando l’abuso viene ripetutamente perpetrato nell’ambito della stessa relazione, si parla di «maltrattamento» (OMS, 2002). Tuttavia, i volti della violenza sono molteplici e di difficile accertamento: a volte la vittima fatica a riconoscerne le manifestazioni, mascherate da parole gentili ma oppressive, travestite da atteggiamenti di cura ma eccessivi, azioni di dominio che narrano disagi personali, scarsa autostima, insufficiente educazione affettiva, mancanza di affermazione o rami infantili di incurie.

1.1 Cycle theory of violence

La letteratura restituisce, all’esperienza della violenza contro le donne, un elemento onnipresente: la ciclicità. Nel 1979 la criminologia elabora la Teoria del ciclo della violenza (Walker, 2007), mediante la quale si evidenzia non solo la reiterazione e l’intensità progressiva, ma anche come ogni fase di rappacificazione non sia altro che il preludio di un nuovo inizio di violenza. Walker lo definisce come «il progressivo e rovinoso vortice in cui la donna viene inghiottita dalla violenza continuativa e sistemica da parte del partner» (Walker, 2007), che si stabilisce nella relazione in maniera subdolamente graduale. Ogni ciclo ha le sue specificità: varia la frequenza, varia la durata, varia l’intensità. Le fasi dell’altrimenti detta “spirale della violenza”, vengono così suddivise:

1. Accumulo della tensione. Si percepisce nell’uomo maltrattante la manifestazione di uno stato di tensione, attraverso un comportamento di ostilità, irrequietezza, fastidio ad ogni atteggiamento della donna. Quest’ultima, vive una sensazione di ansia e angoscia, legata al fatto che il partner utilizzi futili pretesti per litigare e soverchiarla, e generalmente si mostra accondiscendente per prevenire l’escalation della violenza, che ha nell’uomo nient’altro che effetto rinforzante. Questi comportamenti, che inizialmente emergono sporadicamente, vengono in genere sminuiti dalla donna stessa che tende a giustificarli attribuendo loro cause esterne alla coppia, quali problemi lavorativi, economici, di salute;

2. Esplosione della violenza. Questo passaggio inizia per gradi: dagli schiaffi, ai pugni, dai calci alle percosse, dagli oggetti alle armi, fino all’estremo uxoricidio.

Si voglia prendere ora in esame la terminologia specifica in due casi fortemente significativi. Il primo termine, “femmicidio”, completo in quanto contenente sia il fatto che il movente: l’omicidio di una donna, perchè donna. Dall’inglese femicide, viene coniato nel 1992 dalla criminologa Diana H. Russell, la quale formula che «il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito di atteggiamenti o pratiche misogine» (Russell, 1992).

Diversamente, dallo spagnolo feminicidio, “femminicidio” racchiude una valutazione ancora più complessa: utilizzato in campo antropologico nel 2004 da Marcela Lagarde, si focalizza sugli aspetti sociologici della violenza e sulle implicazioni politiche che ne derivano. Pertanto, si può affermare che il femminicidio sia il risultato non di un raptus d’ira, neppure di un’estrema gelosia incontrollata, ma bensì dell’estremizzazione di condotte discriminatorie, fondate sulla disparità di genere.

3. Latenza. Anche soprannominata “luna di miele”, per la valutatività dell’espressione, rappresenta la fase in cui il maltrattante chiede scusa: si mostra pentito, amorevole, è solito far regali, promette di cambiare, arriva a minacciare il suicidio affinché la donna non si separi da lui. Viene accolto perchè, questo meccanismo di manipolazione narcisista, tende a rievocare i momenti di felicità legati ai primi periodi di relazione, e stimola nella compagna un desiderio di azione salvifica nei suoi confronti. Nel caso di provvedimenti in corso, la donna a questo punto è solita rimuovere la denuncia, revocare la richiesta di separazione, interrompere le consulenze, lasciare la “casa delle donne”, per far ritorno dal compagno perdonato;

4. Scarico di responsabilità. In questo momento, l’uomo attribuisce la colpa del suo comportamento, se non a cause esterne, alla donna stessa, accusata di averlo provocato, incitato, infastidito. Il sentimento che emerge in lei, è quello di senso di colpa verso se stessa: per non essere stata come egli bramava e si aspettava. Ne emerge che, nell’ultima fase, da un lato, la parte lesa si convince che attraverso la moderazione dei propri comportamenti possa evitare la prossima escalation di violenza, dall’altro, la persona maltrattante non si sente più responsabile delle sue azioni, che perpetrerà ogni qualvolta ne sentirà il bisogno.

Suddivisi, e riconosciuti, i vari eventi, in nome della loro ciclicità, sono destinati a ripetersi ad intervalli costanti, accelerando e crescendo di intensità. Con il passare del tempo, la fase di latenza tende a ridursi, accrescendo la portata delle altre: la vita della donna è a rischio.

Il rischio di recidiva, coincide con la possibilità che una persona che ha già manifestato comportamenti violenti, possa reiterarli, incrementandone la frequenza, la gravità e la durata.

2. La valutazione del rischio di recidiva

Se è vero che individuare i fattori principali scatenanti gli episodi di violenza è determinante quanto determinista, valutarne in termini futuri la portata è necessario per poter adottare adeguate strategie di intervento. La Convenzione di Istanbul, all’articolo 51, recante Valutazione del Rischio e gestione del Rischio, precisa che gli Organi competenti debbano adottare congruenti misure legislative o di altra natura, con il fine di garantire che la valutazione del rischio sia condotta dalle autorità competenti per assicurarne la gestione e, ove necessario, fornire alla donna un’adeguata messa in protezione

2.1 Lo strumento SARA

L’acronimo americano S.A.R.A. (Spousal Assault Risk Assessment) indica letteralmente la valutazione del rischio di violenza interpersonale fra partner, trattandosi di un metodo empirico che si impegna a calcolare in funzione preventiva quanto un uomo sia a rischio, nel breve o lungo periodo, di commettere nuovamente un atto violento, se non il vero e proprio uxoricidio.

Di matrice canadese, in merito a suddetta valutazione, nella legislazione italiana, persistono

«scetticismi poco giustificati, […] soprattutto perchè il metodo SARA non vuole essere sostitutivo della normale prassi procedurale utilizzata nelle indagini, ma costituire uno strumento d’ausilio, utile per le decisioni che l’Autorità Giudiziaria deve adottare» (Stacchiola, 2007, pp. 3-4).

SARA viene pensato per essere accessibile e fruibile da professionisti e operatori del settore di vario genere: dai magistrati, ai criminologi, dalle Forze dell’Ordine agli assistenti sociali, da psichiatri e psicologi che si occupano di casi di violenza domestica.
Non rappresentando un elemento diagnostico di personalità, non viola i diritti dell’imputato: questi si limita a valutare se il rischio di incorrere nuovamente alla violenza si presenta nel basso, medio o elevato livello, attraverso la misura di venti fattori individuati sulla lettura del caso. Prendendo in considerazione determinate variabili, che siano queste statiche – come sentenze passate, episodi di comportamenti misogini, sminuimento di atti violenti – o dinamiche, pertanto modificabili, lo scopo del SARA è unicamente quello di analizzare gli elementi e fornire una considerazione psicosociale della situazione.

A causa di aree tanto numerose e complesse, l’utilizzo del SARA si è presto mostrato non sempre completabile, specie quando si richiede all’operatore di comprendere la totalità di un caso in un breve lasso di tempo come, ad esempio, quello del primo contatto. Per questo, Kropp propone una versione ridotta, o di screening, a dieci fattori, sempre presentabili allo stato attuale, considerando le ultime quattro settimane, o nel passato (Kropp, Hart, Belfrage, 2010).

Nonostante la semplificazione, SARA-Screening possiede il merito di essere una procedura di valutazione oggettiva, che garantisce discrezionalità e ponderazione dei fattori salienti. Si tiene a precisare che non è possibile stabilire con certezza il livello di rischio di una persona, questo si può solo stimare in base ad una serie di assunzioni. Ad ogni modo, la valutazione del rischio, che sia compilata in versione screening, che integralmente, è comunque migliore di una predizione supposta senza un metodo validato.

2.2 Elementi scatenanti e valutazioni qualitative della violenza domestica

Non rappresentando uno strumento di indagine quantitativa, benché possa sembrarlo dalla sua forma simile ad un questionario, l’esito della valutazione non viene espresso numericamente in base alla quantità dei fattori di rischio esistenti, ma sul tipo, sull’intensità e sul grado di evoluzione. Proprio in merito alla dinamicità del fenomeno, è probabile che il livello di pericolo muti nel tempo, rendendo opportuno il ripetersi della valutazione ad intervalli regolari.

Esistono, tuttavia, circostanze considerate scatenanti, che potrebbero auspicare una nuova possibilità di rischio, tra le quali si identifica: la comunicazione dell’intenzione di interrompere la relazione con il maltrattante; la scoperta della relazione amorosa con un altro partner; l’emergere di problematiche legate ad una già avvenuta separazione, che coinvolgono l’affidamento dei figli, il mantenimento dell’ex coniuge, l’assegnazione della casa; la scarcerazione o la fine degli arresti domiciliari del maltrattante.

Dopo aver raccolto il maggior numero di informazioni sulla dinamica di violenza sia direttamente che da altre fonti, procedere con la compilazione, rilevando, per ogni fattore di rischio, il tempo, l’intensità e la fonte di informazione. Si specifica se il fattore in questione è stato rilevato nelle ultime quattro settimane, prima di un mese, sia nel passato che nel presente, sia se non è disponibile.

2.3 Fattori di rischio della violenza domestica

Indagando lo strumento nel dettaglio, i fattori di rischio si articolano in:

  • Violenze fisiche, considerate, sia avvenute che tentate, con l’ausilio di armi, in gravidanza, sessuali, atti di costrizione, comportamento fisico messo in atto per provocare danni, quale percosse, schiaffi, calci, pugni, strangolamenti. Statisticamente, il tasso di recidiva legato a tale tipo di reato è frequente ed elevato, per la caratteristica di abitualità del maltrattamento;
  • Minacce fisiche o psicologiche,corrispondenti alla manipolazione, al terrorismo psicologico,alle aggressioni verso oggetti o animali, alle minacce con armi: comprendono anche l’esternazione di pensieri omicidi, di pianificazioni violente, forme di persecuzioni agite con pedinamento, contatto non desiderato o assillante. Le espressioni di minaccia possono configurarsi esplicitamente come lettere, avvertimenti telefonici, messaggistica, indirettamente a persone prossime alla donna, o implicitamente come allusioni, intimidazioni, comportamenti e frasi che possono lasciar intendere pensieri, o azioni compromettenti.
  • Escalation della violenza: aumento di frequenza e intensità della violenza fisica, sessuale o psicologica, riconducibile ad un uso intimidatorio, opportunista e ricattatorio, ai fini di ottenere obbedienza e controllo sul partner. Quanto più questo meccanismo si è radicato nella relazione, tanto più il rischio di recidiva aumenta.
  • Precedenti penali, per reati contro la persona e detenzione illegale di armi, che si configurano come rischio maggiore, o contro il patrimonio, costituenti rischio meno elevato.
  • Violazione dei provvedimenti in sede civile, penale, amministrativa. Si presume che un soggetto poco incline a rispettare provvedimenti giudiziali, è a maggior rischio di recidiva rispetto ad altri autori: questi includono sia violazioni di misure cautelari coercitive, che interdittive.
  • Atteggiamenti misogini e ossessivi, quali gelosia, controllo, ossessione, colpevolizzazione della vittima, negazione, minimizzazione della violenza, ricatti psicologici o minacce di suicidio.

Tra i fattori di rischio, a seguire, si individuano ancora l’abuso di sostanze, i disturbi mentali, i problemi economici o di lavoro del presunto reo, difficoltà di adattamento o comportamenti antisociali, o cessazione della relazione.

2.4 Deviance disavowal: le tecniche di neutralizzazione dell’uomo maltrattante

Si voglia analizzare questo aspetto, riconducendosi alla letteratura criminologica legata alle teorie di neutralizzazione di Sykes e Matza: queste sono artifici linguistici universali di “ripudio della devianza” (deviance disavowal), tramite le quali «gli individui razionalizzano le loro azioni devianti, le rendono legittime, comprensibili, permettendo a se stessi di conservare intatto il senso del proprio sé e anche la propria reputazione» (Matza & Sykes, 2010).

Non si tratta di “giustificazioni”, né “scuse”, ma di «sistemi di disinnesco di processi potenzialmente letali di degradazione morale» (Matza & Sykes, 2010).

Punti in comune, questi, con il disimpegno morale (Bandura, 2017), che nel campo della violenza contro le donne [aggiunge l’autrice] si potrebbe articolare nelle circostanze di negazione legate a: la giustificazione morale (“l’ho fatto per onore”); l’etichettamento eufemistico, che consiste nel travestire la condotta con un linguaggio indulgente (“le ho dato una lezione”); il confronto vantaggioso, che ne paragona la gravità con un’azione considerata peggiore (“è uno schiaffo, non l’ho uccisa”); lo spostamento della responsabilità (“non ho risposto di me”); la distorsione delle conseguenze (“alla fine le è piaciuto”); la disumanizzazione, impedendo i processi empatici (“è solo una prostituta”); l’attribuzione di colpa, la più diffusa (“se l’è cercata”).

2.5 Fattori di vulnerabilità della violenza domestica

Insieme alle caratteristiche rintracciabili prima nella relazione poi nel maltrattante, si aggiunge un’analisi dei “fattori di vulnerabilità” legati alla vittima, suddivisi nelle voci:

  • Inadeguato sostegno alla vittima, corrispondente alla mancanza di risorse legate alla dipendenza economica nei confronti del presunto, mancanza di rete relazionale dovuta alla lontananza dal paese di origine, difficoltà linguistiche, scarsa autonomia.
  • Problemi della vittima, relativi all’abuso di sostanze, ai problemi di natura fisica o psichica, compresi fenomeni di autolesionismo o tentativi di suicidio.
  • Comportamento ambivalente della vittima, dovuto al terrore, ai sensi di colpa, alla minimizzazione del rischio, alla pressione della famiglia, alla paura del giudizio. È possibile, inoltre, richiedere se la donna abbia compilato in precedenza l’I.S.A. (Increasing Self Awareness) per l’autovalutazione del rischio, e quale “punteggio del rischio” da quello abbia ottenuto.

SARA costituisce uno strumento pressoché indispensabile, applicabile in innumerevoli ambiti di utilità, uno dei quali è proprio quello del periodo detentivo del maltrattante, ai fini della messa a punto di programmi di trattamento, nonché per la valutazione di eventuali visite familiari, incontri protetti e la definizione delle modalità di realizzazione degli stessi.

3. I Centri anti-maltrattamento e la pedagogia fenomenologica

Da un lato, la prevenzione, dall’altro la possibilità di cambiamento: così dal 2009 si sviluppa in Italia un progetto sperimentale che si occupa degli autori di violenza, il servizio uomini maltrattanti. Sempre dalla parte delle donne, questo persegue l’obiettivo di migliorare la sicurezza delle vittime, come indicato nelle Linee guida del Work With Perpetrators of Domestic Violence di Copenhagen, che suggerisce procedure adeguate agli operatori che lavorano con i perpetratori di violenza domestica.

Basato su fondamenti di prassi pedagogicamente fenomenologiche, il principio chiave cui ruota attorno il servizio è quello dell’assunzione di responsabilità, considerata come capacità dell’uomo di riconoscere e condannare i comportamenti assunti durante la storia di maltrattamento, al fine di rimuovere la possibilità di reiterarli in futuro. Si propone una modalità lavorativa di educazione degli adulti che riconosce come pilastro una relazione funzionale, basata sul rispetto e sulla parità.

3.1 Ri-educare

Le criticità legate ai C.A.M. (Centri AntiMaltrattamento) o Centri per uomini maltrattanti, risiede nel sistema di teorie sulla pena vigente in Italia, basata sull’antinomia tra prospettiva retribuzionistica e utilitaristica: l’una attribuisce alla pena la funzione di espiazione, l’altra quella di difesa sociale. Si prenda in considerazione una terza opzione, in direzione riduzionistica, che intenda limitare, ove possibile, l’uso del carcere con “misure alternative”, introdotte dalla legge di Riforma penitenziaria del 1975, al fine di sottolineare il diritto del reo al reinserimento. Ciò consente di riconoscere come valida, nei confronti del maltrattante, la pratica della rieducazione. Paradossalmente, intervenire per aiutare e modificare il comportamento irregolare significa:

«tralasciare il comportamento in questione, o quantomeno utilizzarlo solo come punto di partenza, per cercare di comprendere la visione del mondo e l’intenzionalità che possono averlo motivato, e di provocarne una progressiva trasformazione» (Bertolini & Caronia, 2015, p. 89).

Si badi bene al termine “comprendere”, che non significa deresponsabilizzare: una pedagogia fenomenologica si rivolge sempre alla considerazione dell’uomo come autore della propria coscienza intenzionale in virtù del suo livello di esistenza chiamato alla soggettività, completamente responsabile delle sue azioni e attività, e per questo, capace di trasformarle, in una visione rivolta al futuro.

La problematica principale nasce dalla consapevolezza che educazione e rieducazione differiscono per la maggiore difficoltà nella concreta realizzazione della seconda, questo perché il soggetto «si colloca in un momento spostato rispetto all’avvio della normale storia educativa di un individuo» (Bertolini & Caronia, 2015, p. 89).

Conclusioni

Il percorso educativo parte dalla ricerca di aiuto delle donne, che matura entro la dialettica tra l’antinomia di privazione e possibilità: la sofferenza nella presa di coscienza della storia di violenza, e la forza di cambiare volgendo lo sguardo verso il futuro. La diversità dei contesti legati alle risorse economiche disponibili, alla presenza di figli, di difficoltà riguardanti la salute, al timore della risposta che si riceve esternamente, o alla non conoscenza di alternative significativamente valide, gioca un ruolo importante rispetto alle tempistiche e alle modalità con le quali una donna decide di richiedere un ausilio.

Pertanto è necessario riconoscere l’importanza dei Centri Anti-violenza e investire nelle loro buone pratiche. E per quanto riguardano le prassi sulla prevenzione, interventi educativi precoci sull’affettività e la sessualità, sull’intelligenza emotiva e sulla divulgazione scientifica sono fondamentali per promuovere relazioni sane e prevenire la violenza di genere. La formazione degli attori istituzionali, come educatori, operatori sanitari e forze dell’ordine è altrettanto cruciale per identificare e affrontare precocemente segnali di abuso.

È stato Apollo, ne Le Metamorfosi di Ovidio, a dire a Dafne “io non sono un nemico, è per amore che ti inseguo”. Ma l’amore è un’altra cosa.

Riferimenti bibliografici

  1. Baldry, A.C. (2006), Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio. Milano: FrancoAngeli.
  2. Bertolini, P., Caronia, L. (2015), Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento. Milano: FrancoAngeli.
  3. Matza, D., Sykes, G. (2010), La delinquenza giovanile. Teorie e analisi. Roma: Armando Editore.
  4. Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) (2002), Quaderni di sanità pubblica. Violenza e salute nel mondo. In https://www.istat.it/it/files/2017/11/Violenza-e-salute.pdf
  5. Russell, D. H. (1992), Femicide: The Politics of woman killing. Twayne Pub.
  6. Stacchiola, M. (2007), La valutazione del rischio di recidiva: Il metodo SARA. In www.uisp.it/ discorientali/files/principale/SARA-2006_1.pdf
  7. Walker, L. (2007), The Battered Woman Syndrome. Berlino: Spinger.